martedì 23 dicembre 2025
L’Arte in genere ha un potere “redentivo”? Nel senso che, oltre a essere ciò che è, architettura, pittura, prosa, musica, e così via, ha impatto o addirittura favorisce i cambiamenti d’epoca? Di certo, l’Arte è precursore storico e sensore invisibile di rivoluzioni “polimorfe” in gestazione, in cui il fatto artistico rivoluzionario in sé precede, accompagna o profetizza fenomeni epocali di cambiamento socio-politico e di costume di un’intera società, nazionale o mondiale. Ora, il bellissimo film Primavera (in uscita nelle sale italiane il 25 dicembre), libera riduzione cinematografica del romanzo Stabat Mater di Tiziano Scarpa, Premio Strega 2009, come va collocato in questo contesto? La musica, cioè, è solo un ente astratto e anodino, buona per descrivere situazioni le più disparate, come sostiene il talentuoso regista di opere liriche, Damiano Michieletto, che con “Primavera” firma la sua prima esperienza cinematografica? Ovvero, come sostiene la responsabile della brillante sceneggiatura, Ludovica Rampoldi, la musica rappresenta una sorta di Cupido, sensale dello sposalizio tra talenti, quello cioè dell’anziano maestro Antonio Vivaldi (Michele Riondino) e della giovane violinista ventenne, Cecilia (Tecla Insolia), protagonista del dramma? Lei, dal candore verginale allevata nella fondazione veneziana per orfanelle, l’Ospedale della pietà (più figlio dello sterco del demonio, il denaro, che della carità e delle sue pie opere), al centro dei fatti e misfatti di un mondo che si cela dietro le porte chiuse. Per un’orfana senza dote, marchiata a fuoco da neonata con il logo dell’orfanatrofio come un agnello del gregge, la verginità rappresenta il solo patrimonio posseduto, e una vera e propria merce pregiata di scambio con il mondo di fuori.
In realtà, la splendida musica vivaldiana di radicale rottura con il passato, quello stucchevole e melenso della tradizione musicale del XVIII secolo, dà l’idea del contesto in cui la colloca il racconto di Stabat Mater, per farne uno potente strumento descrittivo che traccia un netto e radicale discrimine tra bene e male, il cui l’artiglio del diavolo si cela dietro le parrucche incipriate e le facce decadenti dei potenti dell’epoca, che siano governatori dell’Orfanatrofio, o Re di Danimarca. Per non parlare poi della figura truce di Sanfermo (Stefano Accorsi), un guerriero specchiato, di ritorno dalla guerra vittoriosa sui turchi, che si vendica della Musica responsabile di averlo disonorato, infierendo sulla sua promessa sposa, ostica come le sue corde di violino. Assecondando l’invito del romanzo cui si ispira, il film indaga su quel continente “oscuro” che è dentro ognuno di noi, e in cui le prede sono giovani fanciulle dotate per le arti, il canto e la musica, allevate per essere date in pasto a qualche signorotto, anziano e benestante, in cambio di una donazione all’Istituto. Una volta maritate, però, sarà proibito loro di continuare a nutrirsi del dolce frutto del proprio talento artistico, che inaridirà nel tempo come la loro gioventù. E lì, in questa negazione di regime, sta il vero peccato mortale di tutte quelle anime di maschio e di femmina, tra cui risalta la ricca e viziosa Elisabetta Parolin (Valentina Bellè) e, dal lato opposto, quello delle Priora (Fabrizia Sacchi) angelo-demone, che fanno sfoggio delle loro dubbie virtù, partecipando numerose alle funzioni religiose domenicali, in cui dietro le grate del matroneo si nascondono le figure delle musiciste, dirette da un prete, per lo più di scarso o nullo talento.
Loro, le ancelle dell’amatissima musica, restano chiuse all’interno di un maniero urbano in cui l’amore per l’arte è una trappola per allodole, cinicamente e brutalmente gestita da padri-padroni per ottenere da personaggi benestanti somme di denaro in donazioni e finanziamenti, facendo delle giovinette-schiave la loro merce di scambio. Un carcere dissimulato, quell’Ospedale della pietà, che nega vita e libertà al desiderio carnale di donne in fiore, confrontate alla prepotente biologia del proprio corpo adolescenziale che cresce, che vuole conoscere il mondo a loro è interdetto. In questa prigione dorata, arriva un bel giorno un prete malandato, Antonio Vivaldi, cui è proibito dire messa, e che fa immediatamente di Cecilia il suo primo violino, perché in lei ha scorto la vera passione, e non la voglia di mostrarsi. Molte sono le “Signore” di questo film, alcune ricche e dissolute; altre cerbere guardiane del celibato come la Priora (Fabrizia Sacchi); e altre ancora giovani che sembrano vecchie e sanno tutto delle cose che dovrebbero restare ignote e misteriose agli occhi di un’educanda, del tipo come nascono i figli e di ciò che accade carnalmente la prima notte di matrimonio. La più immanente delle figure femminili è però un fantasma, come la madre naturale ignota di Cecilia, sulla quale si concentra un potente precipitato emotivo di odio-amore da parte della figlia orfana, inconsolabilmente ferita dell’abbandono materno. L’altra, inquietante, presenza è quella della rettrice, vera kapò di quel secolo lontano che, all’inizio del film, chiude nel sacco i gattini appena nati e li getta nel canale che fiancheggia l’edificio dell’orfanatrofio.
Cecilia, viene più volte sorpresa dall’obiettivo (bellissima la fotografia) nei locali d’archivio del seminterrato, intenta a scrivere sugli scarti della carta da musica a una madre sconosciuta, passando notti insonni a vergare lettere che mai nessuno leggerà. Lei, giovane erinni letteraria, alla ricerca furente di una traccia del suo passato, dato che era tradizione per le madri, quando abbandonavano i propri figli, lasciare la metà di un’immagine sacra o profana, poi conservata scrupolosamente dalla rettrice nel libro d’archivio, su cui era annotata la data e le circostanze del ritrovamento dei neonati, depositati da mani anonime nell’incavo della ruota degli esposti. Solo il “matching” tra quel reperto d’archivio e la metà in possesso della madre naturale dava diritto a quest’ultima di riavere indietro la propria figlia. Cecilia, che accusa quella sua madre ignota di ogni nefandezza o la raffigura, all’opposto, come vittima anch’essa del “sistema”, in cui si elimina la vergogna sociale depositando una figlia illegittima alle porte dell’orfanatrofio. Lei che racconta di sé, delle sue testimonianze di vita non vita, subito spenta, maltrattata, come quella dell’aborto in una latrina, nello schifo e nella solitudine descritti nel romanzo. Ma è il suo rapporto con la musica a risultare sconvolgente: il suono diventa carne e viceversa!
Ed è quel genio di Don Antonio (Vivaldi), che si accorge del talento musicale smisurato di Cecilia stessa e ne fa un tabernacolo, che solo lui può visitare e aprire a piacere ammirandone la forza e l’armonia, ma che non può difendere dall’attacco finale del Male. Spetterà alla protagonista spezzare le catene e scegliere da sola come conquistare la propria libertà.
Voto: 9/10
di Maurizio Bonanni