Con Melville nella Repubblica Rivoltocratica delle Encantades

venerdì 19 dicembre 2025


“Prendete venticinque mucchi di cenere, gettati qua e là su un terreno ai margini della città, immaginate che alcuni di questi si innalzino come montagne, e che il terreno sia il mare, e avrete un’idea adeguata dell’aspetto generale delle Encantadas, o Isole Incantate. Un gruppo di vulcani spenti più che isole, molto simile a quello che potrebbe essere il mondo dopo una conflagrazione punitiva”.

Con questa raffigurazione perentoria e magistrale iniziano i racconti incatenati che sono racchiusi in queste Isole Incantate, dove la signora Natura regna sovrana esibendo l’ostinazione a sopravvivere di coriacee forme di vita. Si tratta di racconti piuttosto brevi, che costituiscono in una forma sintetica quanto incisiva un’ulteriore testimonianza dello sguardo tragicamente puro con cui Herman Melville vede la natura e tutto ciò che in essa si fa allegoria di un senso.

Come osserva il curatore di questa traduzione italiana, Cristiano Spila, Melville rappresenta qui luoghi che hanno l’aspetto di “un mondo dopo la caduta”, su cui incombono i segni non solo di molti naufragi reali, ma anche di quello metaforico dell’intera umanità. Descrivendo i paesaggi cosparsi dai detriti e dagli avanzi di quella che sembra una civiltà ormai trascorsa, soffermandosi sui suoi aridi resti che, come schegge inerti di un vago trapassato remoto, evocano un futuro anteriore non meno desolato, Melville riesce a provocare un cortocircuito del tempo che si riflette in una natura condannata e immota.

Queste isole incantate sono infatti colte da una singolare maledizione, dalla desolazione dell’assenza di stagioni, dalla perenne siccità e dal quasi nulla accadere, come forse se ne potrebbero trovare solo in un mondo decaduto, fantasma inabitabile e terreo di un altro ch’eppure era stato vivo. Se in passato flotte di pescatori di balene avevano incrociato le isole più esterne all’arcipelago, tra tutte le meno inospitali, quando queste furono visitate dal narratore e dal suo equipaggio erano popolate specialmente da tartarughe. Furono loro a conferire alle isole il secondo nome di Galapagos. Per molti anni cacciate dai bucanieri, specialmente in virtù dell’olio che vi si poteva estrarre, queste bestie macchinose si spostavano infatti in gran numero sulla superficie petrosa dell’isola con un passo ostinato che pareva espressione di un’autocondanna. Con maggior precisione, il narratore osserva che “in nessuna forma animale si esprime un perenne dolore e una disperazione da condannato così duratura, mentre il pensiero dell’incredibile longevità non fa che rafforzare quest’impressione”. Nelle loro peregrinazioni sbattono di frequente contro delle rocce e continuano a premervi contro a lungo nella vana speranza di spostarle, così da poter proseguire a dritto nella direzione tracciata per loro da un fato arcano che le costringe a cercare di superare ogni ostacolo.

Me le tartarughe non sono il solo tipo di animali che si trovano sulle isole. Dopo una navigazione notturna al largo di una di queste, mentre una grande luna bassa illuminava l’orizzonte come un faro mezzo spento, una brezza leggera sfiorava languide onde e tutta la natura intorno sembrava sdraiata supina intenta ad assaporare l’attesa del sole, il narratore e l’equipaggio della sua nave videro, intorno a una grande roccia incombente sul mare, somigliante a un castello fortificato, miriadi di uccelli che le volteggiavano intorno stridendo.

La grande roccia rotonda su cui poi, a piccole frotte, andavano a posarsi – e che dava quest’isola il suo nome di Rocca Rodondo – era coperta a strati da un bianco guano spettrale, lungo le cui strisce stratificate erano appostati volatili delle specie più varie e spesso provenienti, come le fregate, da centinaia di leghe di distanza. Appostati su una delle balze più alte di quella torre di roccia, grandi pellicani dall’aria meditabonda sembravano incipriati di cenere, effetto che rafforzava il già lugubre aspetto dei loro becchi allungati e delle loro borse pendenti. Sopra questi uccelli “penitenziali”, soggiornava l’albatros grigio, un brutto ipotetico uccello solo lontano parente del celebrato nivale che abita nei pressi di Capo di Buona Speranza e Capo Horn, e ancora più in alto si potevano riconoscere “sule nere e maculate, ghiandaie, galline di mare, uccelli dei capodogli, gabbiani di tutti i tipi: troni, principi e dominazioni, gli uni sugli altri in ordine senatoriale”.

Tra tutte queste isole scabre e pochissimo popolate, ce n’è anche una che potrebbe essere ritenuta interessante dal punto di vista politico. Si tratta di quella detta di Charles, che prende il proprio nome da un signore creolo che la ricevette quale pagamento in natura dal governo peruviano per i suoi servigi. Divenutone l’unico padrone, si portò sull’isola i suoi fedeli cani, circa una cinquantina, e invitò pubblicamente chiunque a farsi cittadino del suo nuovo regno ancora disabitato. Un’ottantina tra uomini e donne accettarono la proposta e dopo essersi trasferiti nell’isola dai luoghi più vari costruirono le loro case e una specie di città utilizzando detriti di lava vulcanica.

Insediatisi nell’isola in qualità di sudditi del Sovrano creolo, si dedicarono poi alla pesca e all’allevamento di capre, animali agili e assai abili nel rintracciare tra quelle rupi i pochi ciuffi d’erba sopravvissuti alla cronica siccità. Ben presto però questi sudditi incominciarono a litigare energicamente tra loro, tanto che Sua Maestà decise di proclamare la legge marziale, che però non si rivelò sufficiente per calmare le acque. Inoltre, essendo i componenti del corpo di guardia del Sovrano per lo più cospiratori e traditori, rischiavano di mettere in serio pericolo la sua stessa sopravvivenza. Così, alla fine, la pena di morte venne abolita, anche perché, se fosse stata applicata con rigore, di cittadini vivi ne sarebbero rimasti pochi.

Ciò non evitò comunque ulteriori insubordinazioni, fino a quando una vera e propria rivolta non indusse il Sovrano a reagire mettendosi a capo di un esercito di cani e sfidando in cotal guisa i rivoltosi sulla spiaggia principale dell’isola. Al termine di una furiosa battaglia rimasero sul campo solo tre marinai insorti e tredici cani, e i tre umani ebbero la meglio, costringendo il Re a ritirarsi in collina con i resti del suo reggimento canino. I rivoltosi vincitori tornarono così alle loro abitazioni e, dopo aver svuotato barili di liquori, proclamarono la Repubblica. L’ex sovrano trovò rifugio in Perù, dove imparò a destreggiarsi come contadino, ma rimase sempre in attesa del fallimento di quella Repubblica improvvisata, che reputava un misero esperimento politico destinato a durare poco.

La sua previsione doveva però rivelarsi errata, perché i rivoltosi non avevano dato vita a una democrazia come quella greca, o romana o americana, ma a una vera e propria Rivoltocrazia, che assomigliava a una sorta di anarchia, perché si vantava “di non avere altra legge che la mancanza di legge. Grandi incentivi erano offerti ai disertori e perciò la società si popolò dei manigoldi di ogni nave che toccava le loro spiagge. L’isola di Charles fu proclamata terra d’asilo degli oppressi di tutte le marine. Ogni miserabile fuggiasco era accolto come un martire per la libertà, e immediatamente nominato un lacero cittadino di questa universale nazione”.

Poiché col passare del tempo nessuna nave osava più farvi scalo, l’isola divenne proibita e dannata, in quanto “nascondiglio per ogni sorta di desperados che, in nome della libertà, faceva quel che gli pareva”. La sua popolazione rimase tuttavia fluttuante, perché mentre molti marinai continuavano ad arrivare molti altri cercavano di fuggire raggiungendo a nuoto le isole vicine. Quando ci riuscivano, si presentavano ai capitani delle navi di passaggio ancorate in rada come naufraghi, come oppressi fuggiaschi della Repubblica Rivoltocratica dell’Isola di Charles in cerca di un’agognata libertà, ricavandone un qualche immediato ristoro e una buona dose di laconica solidarietà.

(*) Le Encantadas o Isole Incantate di Herman Melville, Manni editore (Lecce 2010), pagine 152, euro 13,30


di Gustavo Micheletti