mercoledì 10 dicembre 2025
Il ritorno di Lohengrin al Teatro Costanzi, dopo mezzo secolo, sul palcoscenico romano, che il sottoscritto ha avuto il piacere di vedere, oltre a essere stata una suggestiva interpretazione lirica, ha di per sé rappresentato un evento di notevole spessore culturale per il suo debutto in lingua originale nella Capitale.
La scelta del direttore d’orchestra Michele Mariotti di inaugurare con quest’opera la stagione 2025-2026 ha dunque assunto fin da subito i toni di un gesto programmatico e innovativo: un segnale di rottura, di apertura, quasi la volontà di collocare l’Opera di Roma entro un orizzonte più europeo, più contemporaneo e più coraggioso. Una decisione audace anche per il direttore stesso, al suo primo cimento con Wagner e dunque sospesa tra il rischio e l’esigenza di innovazione.
Mariotti, con il suo retroterra fortemente ancorato alla tradizione italiana e a una dimensione lirica più leggera, di certo non appariva il candidato naturale per un’opera la cui identità sonora è scolpita da decenni nelle porcellane sonore della scuola tedesca. Eppure, forse proprio per questo, il suo Lohengrin ha colpito, in particolare, ha suggestionato non per imitazione, ma per interpretazione.
Mariotti ha scelto un suono potente, teso, scintillante, di matrice decisamente imperiosa, dirigendo un’orchestra d’acciaio più che d’argento, che non inseguiva la trasparenza “argentea” del wagnerismo classico, ma costruiva una massa timbrica più complessa, più pulsante, a tratti quasi brutale. Una lettura depurata dal sentimentalismo visionario che spesso ammorbidisce l’opera e protesa invece verso una forza narrativa più “geometrica”, più fredda e più incalzante. Se talvolta questa opzione ha sacrificato lo slancio lirico in favore dell’impatto, non si può negare che la coerenza dell’insieme fosse impressionante.
L’Orchestra e il Coro del Teatro dell’Opera di Roma hanno risposto a questa chiamata con una disciplina e una densità di suono davvero rare al Costanzi. Il coro, preparato da Ciro Visco, ha sfoggiato un fraseggio scolpito e una compattezza imponente, divenendo uno dei principali artefici della riuscita musicale della serata. Pertanto, nonostante che su questo versante l’inaugurazione sia stata un trionfo quasi unanime, molto meno uniforme, purtroppo, si è dimostrato il fronte vocale.
Il Lohengrin di Dmitry Korchak si è imposto come assoluto dominatore della scena, con una performance che, al di là dei confronti generazionali con illustri predecessori, ha segnato per Roma un punto di riferimento. Il timbro luminoso ma non evaporato, la linea di canto flessibile, la padronanza delle mezze voci e l’inclinazione all’intimismo poetico hanno donato al personaggio un’aura insieme nobile e umana, capace di un lirismo assai pregevole, che si è imposto come elemento necessario dell’opera. Il racconto finale, cesellato con una sensibilità quasi cameristica, ha siglato un momento di altissima ispirazione, accolto con grande entusiasmo trasversale.
Non altrettanto si può dire del resto del cast, infatti, Jennifer Holloway, nella parte di Elsa, ha offerto una prova corretta ma lontana dall’incanto che il ruolo richiede, con un timbro talora rugoso, acuti non sempre liberi, un fraseggio più prudente che evocativo. La sua interpretazione di Elsa, privata dell’elemento adolescenziale e visionario, sembrava smussata, borghese, talvolta quasi dimessa. Altresì, Ekaterina Gubanova, pur professionista esperta, non ha raggiunto per Ortrud la necessaria combinazione di ampiezza sonora, tra veleno drammatico e tensione luciferina, in quanto la sua presenza vocale mancava di quella potenza ombrosa che rende il personaggio irresistibile antagonista. Tómas Tómasson (Telramund) e Clive Bayley (Heinrich) hanno completato un quadro purtroppo debole, mentre Andrei Bondarenko, come araldo, ha offerto una prova ben superiore alla media del cast comprimario, con voce salda e eloquente
Invero, da tempo il regista dell’opera Damiano Michieletto è stato una figura onnipresente nel panorama operistico europeo, alternando intuizioni folgoranti a derive autoreferenziali. La regia di Lohengrin è stata decisamente controversa e ha raggiunto delle desolanti derive autoreferenziali tanto incomprensibili nel suo forzato ed enigmatico simbolismo scenico quanto mortificanti per la distanza dimostrata nei confronti della scenografia classica dell’opera, risultando per nulla alternativa, ma semplicemente arida nella sua moderna interpretazione scenografica.
La gigantesca staccionata lignea che curva e taglia il palcoscenico, pur possedendo un’evidente valenza metaforica (confinamento, sospensione, frontiera) finisce per rimanere un monolite scenico raramente funzionale all’azione. Il cielo perennemente scuro, inciso da anelli luminosi “saturniani”, crea un’atmosfera che tenta l’allegoria e l’astrazione, ma senza fornire una chiave narrativa comprensibile. Inoltre, ancor più problematico è il proliferare di simboli enigmatici, come l’uovo metallico che non si schiude, la grossier vasca da bagno, le funi pendenti, le vetrine, in sostanza tutti elementi che sembrano alludere a un linguaggio drammaturgico che però non viene mai interpretato né spiegato. Difatti, il programma di sala, lungi dal chiarire, conferma l’impressione che l’intera impalcatura simbolica resta sospesa in un’autoreferenzialità che isola lo spettatore invece di coinvolgerlo.
I costumi (volutamente trasandati, con canotte, ciabatte, abiti dimessi per principi e fanciulle) potrebbero anche rientrare nella grammatica di un’operazione antiretorica, se non fossero privi di una logica scenica che ne giustifichi l’impatto. L’apice dell’oscenità della regia viene raggiunta nella scena finale, quando il progetto registico deraglia completamente, con la grottesca irruzione dei tendaggi argentati che cadono dall’alto, sommergendo coro, solisti e persino il protagonista, la quale suscita una reazione di risate spontanee frammiste a surreale incredulità. Un’apoteosi di cattivo gusto che strideva non solo con Wagner, ma anche con la stessa estetica che Michieletto sembrava voler costruire. Un gesto scenico talmente invasivo da risultare grottesco e che rischiava di travolgere persino la concentrazione musicale di uno dei momenti più elevati dell’opera. Gli applausi finali hanno così sancito un giudizio netto, ossia ovazioni per Mariotti, per l’orchestra, per il coro e soprattutto per Korchak e un’accoglienza fredda o apertamente ostile per la regia.
In conclusione, questo Lohengrin romano resta una produzione inevitabilmente divisiva, ma non per questo meno significativa. L’encomiabile direzione di Mariotti ha cercato di mostrare una personalità forte e un’ambizione di ampio orizzonte europeo, mentre la prestazione di Korchak segna un punto alto dell’interpretazione lirica per il teatro della capitale. Quindi, l’unica nota stonata è stata la regia di Michieletto, così ricca di vani tentativi di suggestionare gli astanti che alla fine sono risultati solamente meri artefizi di autocompiacimento, con un simbolismo pleonastico e disgiunto dall’azione.
Al postutto, l’opera di Lohengrin è stata una rappresentazione lirica potente e nel contempo irregolare, in cui le vette musicali hanno illuminato con forza anche le zone d’ombra, ma ciò che maggiormente risalta consiste nell’inconfutabile fatto che Roma, nel bene e nel male, è tornata a essere un luogo in cui l’opera fa discutere, emoziona e divide, riappropriandosi finalmente anche del titolo di “capitale lirica”.
di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno