“Vita privata”: se Freud non aiuta

giovedì 4 dicembre 2025


E se, finalmente, sul lettino di Sigmund Freud sedesse la psichiatra stessa? Su quale parete si dovrebbero proiettare le sue visioni? Su quella posteriore, o la frontale, aperta e immaginaria, come la quarta parte del teatro dal vivo? Se, alla fine, si dovesse rispondere alle precedenti domande con un caso specifico, allora questo non potrebbe che coincidere con la trama del film Vita privata (in uscita nelle sale italiane l’11 dicembre) della regista Rebecca Zlotowski, in cui è Jodie Foster a dare vita alla psichiatra Lilian Steiner, coinvolta professionalmente ed emotivamente nel dramma di Paula, una sua paziente, al momento in cui viene a conoscenza del suo suicidio. E, poiché per un terapeuta non c’è nulla di peggio del terrore di aver fatto una diagnosi sbagliata, non accorgendosi per tempo della pulsione suicida di chi si ha in cura, il rimedio è di negare d’impulso l’atto volontario, riciclandosi in detective per indagare invece su di un presunto omicidio, dandolo per scontato. La cosa divertente, dato che spesso il destino ama giocare a dadi, è rappresentata dal fatto che, per una serie di circostanze, fatti apparenti danno luogo a sospetti concreti, concentrando l’attenzione di chi investiga sulla stretta cerchia dei familiari della defunta, in cui entra in ballo una ricca eredità da parte della zia di lei. Ma poiché, questa partita non la si può giocare da soli, in assenza di una Squadra omicidi, a Lilian non resta che reclutare come assistente alle indagini il proprio ex marito che, a quel punto, assume volentieri il ruolo attivo-passivo del dottor Watson, non avendo da parte sua mai smesso di amare quella strana moglie.

Di mezzo, però, c’è anche un figlio, Julien (Vincent Lacoste), a sua volta padre di un bimbo molto piccolo, nei confronti dei quali Lilian prova un’istintiva forma di distanziamento e di straniamento, trattandoli quasi da perfetti sconosciuti, impossibili per lei da gestire. E qui, si incontra il primo paradosso dei tanti con i quali il film intende sfidare la coerenza dell’osservatore: un medico, un analista, o uno psichiatra sono, o no, idonei a occuparsi degli affetti di più stretta prossimità, come parenti, mariti e amanti? La risposta negativa (ovvero: meglio che un terapeuta non si occupi della salute fisica e mentale dei propri familiari) risiede nelle immagini oniriche, in cui in una seduta di regressione ipnotica Lilian vede nel proprio figlio un suo persecutore, affiliato alla milizia neonazista francese, mentre Paula, la suicida, diviene una sua amante segreta e il marito di lei è l’assassino conclamato della propria moglie, a sua volta ammonita sul proprio tragico destino dalla vecchia zia ingioiellata. Detto così, in effetti, c’è da perdere un po’ la testa. Ma, per chi non è del mestiere, e i due ex, marito e moglie (entrambi dottori in medicina) di certo non lo sono, immergersi nelle atmosfere ambigue e devianti del mondo di Sherlock Homes spinge erroneamente a ipotizzare uxoricidi per godersi le amanti segrete, o avvelenamenti alla Borgia da parte di familiari stretti, più o meno mossi da oscuri interessi.

Da un certo punto in poi della drammatica vicenda, diradate le nebbie del sospetto e in assenza di prove inconfutabili, chi investiga si trova in preda ai dubbi, rendendosi conto di essere lei stessa la vera colpevole nella sua qualità di terapeuta, perché tutta la vicenda rimette in discussione la parte sostanziale del suo mestiere: ovvero, l’approccio terapeutico, il cui primo strumento, prima di formulare qualsivoglia diagnosi e trattamento terapeutico, è quello dell’ascolto che Lilian ha fatto mancare proprio a Paula, la sua paziente scomparsa in drammatiche circostanze. Allora, il reset non può che coinvolgere l’intero apparato affettivo: figlio, ex marito e appassionato amante; e, finalmente, lo stesso setting, il cuore vivo del rapporto paziente-terapeuta. La morale è a questo punto universale, per chiunque abbia in cura il corpo altrui: l’anamnesi non può essere affidata al solo, astratto approccio teorico, perché poi è fondamentale la clinica, cioè la capacità di visitare il paziente osservandone la persona in tutte le sue componenti e, in questo caso, valutandone correttamente la personalità. Perché, durante una visita o una seduta, è lui il solo a poter raccontare la verità su di sé, da cui se ne può dedurre l’aspetto patologico o la turba mentale che, da un lato, possono necessitare dei ferri del chirurgo, come dall’altro accendere dei sensori sulle sue pulsioni autodistruttive, pilotandole così dall’esterno in un porto emotivo più sicuro, affinché non facciano danni irreversibili né a sé, né agli altri.

Voto: 7,5/10


di Maurizio Bonanni