mercoledì 26 novembre 2025
Si racconta che un giorno Apollo, giovane e splendente come solo un dio sa essere, abbia osato deridere Eros. Un gesto da poco, forse, ma sufficiente a far nascere una delle storie più struggenti del mito. La punizione fu invisibile e immediata: una freccia d’oro per Apollo, una di piombo per Dafne. Amore per uno, rifiuto per l’altra. Da quel momento, il destino prese a correre con il respiro corto.
Dafne fuggiva tra i rami e le ombre della foresta, leggera come una promessa che non vuole essere afferrata. Apollo la inseguiva, ardente, incapace di fermare l’onda che gli bruciava il cuore. Il vento portava via le sue parole, gli alberi sembravano aprirsi per far passare la ninfa, il sole posava riflessi tremanti sulle sue spalle nude. E quando Apollo stava per raggiungerla, quando la mano si tendeva come un raggio troppo vicino, Dafne invocò il padre Peneo. La terra la accolse. Le braccia si fecero rami, i piedi radici, i capelli foglie sottili. Apollo non trovò più una fanciulla: trovò un albero d’alloro che vibrava ancora del suo respiro. Da questa scena così rapida, così sospesa nacque un fiume di immagini, musiche, parole. Il mito prese a vivere in molti mondi diversi.
La musica fu la prima ad accorgersi che in quella fuga c’era un ritmo segreto. E così, proprio agli albori dell’opera, quando il melodramma muoveva i suoi passi incerti, il mito tornò a vivere sulla scena. Jacopo Peri, nel 1598, compose una “Dafne” oggi quasi perduta, ma che la storia ricorda come la prima opera della tradizione occidentale. Immaginiamo quelle voci antiche, i gesti solenni e delicati, mentre la ninfa corre e il dio la insegue: la nascita del teatro musicale e la rinascita del mito, nello stesso istante.
Pochi anni dopo, nel 1608, Marco da Gagliano offrì la sua “Dafne”, più ricca, più costruita, più consapevole del potere della musica di narrare emozioni: qui la metamorfosi si scioglie in madrigali, in sospiri armonici che imitano foglie e tremori. E poi arrivò la voce potente del giovane Georg Friedrich Händel, che tra il 1709 e il 1710 compose la cantata “Apollo e Dafne” (HWV122). In questa musica la storia si distende con straordinaria intensità: Apollo esulta, supplica, si sfoga; Dafne respinge, fugge, svanisce. E alla fine, quando la ninfa non è più ninfa ma alloro, la musica si assottiglia come un sospiro che si perde nella foresta. E come un soffio, “Dafne”, raffinata, delicata, che riflette la pastorale mitica, l’opera in un solo atto di Richard Strauss.
Nei secoli seguenti, il mito non scomparve, anche se prese strade più sottili. Il Settecento neoclassico lo evocò in sinfonie e oratori; il Novecento lo sfiorò in atmosfere, come quelle luminose e antiche che Ottorino Respighi amava ricreare nelle sue suite, dove la natura sembra sempre pronta a parlare con voce mitica. Non esiste una grande opera ottocentesca dedicata esplicitamente ad Apollo e Dafne, ma il loro respiro percorre molte pagine sinfoniche che raccontano metamorfosi, fughe, amori irrisolti. Così, musica dopo musica, il mito non smise mai di correre.
Nessun artista rimase indifferente a quell’istante in cui un corpo umano si trasforma in albero. La pittura rinascimentale e barocca vi vide un miracolo di movimento, una sfida alla materia. Eppure, fu uno scultore, Gian Lorenzo Bernini, a scolpire l’immagine più viva della leggenda. Nella sua “Apollo e Dafne” (1622–1625), il marmo sembra sciogliersi: le dita della ninfa si trasformano in foglie quasi senza che lo sguardo se ne accorga, i piedi diventano radici, il volto si perde in una preghiera e in un grido insieme. Apollo allunga la mano e tocca una metamorfosi, un istante già perduto. È probabilmente la rappresentazione più perfetta del movimento mai racchiusa in pietra.
Prima e dopo Bernini, pittori come Antonio del Pollaiolo, Piero del Pollaiolo, Nicolas Poussin, e più tardi Waterhouse, hanno raccontato la fuga e la trasformazione secondo la loro epoca e il loro cuore: chi con linee tese e dinamiche, chi con armonie classiche, chi con malinconie romantiche. In ogni immagine, il mito cambia colore: a volte dramma, a volte leggerezza, a volte poesia pura.
Nella letteratura, il racconto nasce con Ovidio, nelle Metamorfosi, dove la storia è narrata con leggerezza e ferocia insieme. Da allora, ogni epoca ha riscritto a modo suo la metamorfosi: poeti umanisti, scrittori romantici, narratori moderni. E nel Novecento italiano, il mito ha trovato un’eco particolare in Gabriele D’Annunzio, soprattutto nell’atmosfera di Alcyone, dove la metamorfosi vegetale diventa simbolo di unione sensuale con la natura. In La pioggia nel pineto, la donna che “si fa tutta verde” ricorda da vicino la ninfa che diventa alloro: non più fuga, ma abbandono; non più paura, ma incanto. Il mito continua a germogliare: nei romanzi contemporanei, nelle poesie che parlano di trasformazione e identità, nei racconti che esplorano l’amore che non sa essere corrisposto.
Da secoli Apollo e Dafne continuano a vivere perché raccontano qualcosa di segreto: che il desiderio può essere inseguimento, che la libertà può essere una fuga, che la trasformazione è a volte l’unica salvezza. Apollo resta con una corona d’alloro in mano, ricordo e ferita. Dafne resta albero, libera nella forma che ha scelto. E noi restiamo sospesi tra queste due immagini, come se in esse fosse racchiuso qualcosa che ancora riconosciamo: una corsa che non finisce, un amore che non si ferma, una metamorfosi che non smette di insegnarci qualcosa.
di Stella Camelia Enescu