Le radici dell’odio e il ritorno al Tutto

mercoledì 19 novembre 2025


L’uomo è un universo individualizzato auto-riflessivo, una eco della profondità dell’esistenza, un continuo gioco di luce e ombra, di presenza e possibilità come un oceano che si accorge di essere onda, un fuoco che si contempla mentre brucia, il silenzio che genera il primo suono, il vuoto che sorride guardandosi pieno di stelle. È lo specchio di un universo in movimento, dove la scelta volontaria fluisce come un vento che dirige le correnti invisibili della realtà. Allora da cosa nasce la violenza e l’aggressività? Dalla negazione dell’ordine implicito che è dentro l’animo umano e da una separazione tra individui che è illusoria. 

Consideriamo il τέμενος, il recinto sacro in cui vive la persona, lo spazio necessario per l’auto-riflessione, il “bordo” fenomenologico dove l’universo si individualizza e si differenzia per conoscersi. La violenza emerge quando questo confine poroso e dinamico si irrigidisce, quando il fenomeno che rende il τέμενος permeabile viene negato e la separazione, che è solo apparente, diventa barriera assoluta. Quello che è un luogo di manifestazione temporanea e puntuale diventa una fortezza identitaria rigida, trasformando “l’altro me” in “altro da me”, in un nemico radicalmente estraneo. Si arriva quindi ad un momento “generativo” della violenza che nasce dallo oscuramento della natura relazionale dell’esistenza umana in nome di un’identità separata. Infatti, quando un individuo misconosce che la propria esistenza è interconnessa con quella degli altri inizia a percepire il prossimo come un’entità completamente scissa, manipolabile, oggettivabile e quindi anche attaccabile.

Questa riduzione “dell’altro me” ad “altro da me”, questa totalizzazione che cancella il mistero dell’umanità, è la matrice stessa della violenza e “l’altro” non è più riconosciuto come un τέμενος simile, distinto e avvinto, in cui l’universo (se volete il Cristo cosmico) si conosce attraverso una prospettiva differente, ma diventa un ostacolo alla propria realizzazione, una minaccia alla propria esistenza, un oggetto, che avendo perso la propria dignità, da dominare o eliminare se non sottomettibile.

Quando l’uomo dimentica che “la separazione è illusione” e che l’entanglement ci obbliga al re-entanglement, esso si cristallizza in un’identità isolata e quindi pericolosa. Questa pietrificazione genera paura, difesa territoriale, aggressività preventiva, combattimento per nullificare un’esistenza che percepisce come minaccia. È dunque un fallimento cosmico, non solo personale: è l’universo che non riesce a riconoscersi.

La violenza si nutre dalla separazione illusoria tra spirito e materia, soggetto e oggetto, io e cosmo. Quando la coscienza non è riconosciuta come “agente non locale”, che connette, cioè, tutto nell’ordine implicito, ma viene ridotta a epifenomeno, l’uomo si percepisce come un oggetto scagliato nel vuoto da un Big Bang cieco, privo di significato. Questa percezione nichilista genera la violenza. Infatti, se l’esistenza diventa priva di senso se non c’è interconnessione sacra e allora ogni atto diventa possibile e tragico.

Il dualismo cartesiano, la separazione netta tra res cogitans e res extensa, si rivela così non solo un errore filosofico ma una radice culturale profonda della violenza moderna: l’altro diventa pura estensione meccanica, corpo manipolabile, oggetto privo di quella sacralità che deriva dal riconoscimento del campo “coscienziale” unico.

Questa misconoscenza non è semplicemente intellettuale ma esistenziale: è il fallimento del γνῶθι σαυτόν (conosci te stesso), inteso nella sua dimensione più radicale, come riconoscimento della propria natura di nodo nel tessuto universale.

In questo senso, ogni atto violento è un atto di autolesionismo, il cosmo che ferisce se stesso, un paradosso in cui il “Tutto” combatte contro se stesso credendosi molteplice quando invece è “Uno”. Ed è per questo che la genesi della morale e dell’identità sta nella relazione, nell’empatia nel dialogo e nel riconoscimento del “Tutto nell’Uno” e non in una soggettività monadica chiusa.

Un esempio paradigmatico di questo processo di estraniamento è l’antisemitismo, che ci mostra tragicamente come la negazione della sacralità dell’altro e della sua connessione con l’universo porti a un odio strutturale e sistematico. Esso si fonda su un processo di invisibilizzazione e deumanizzazione sistematica che nega la divinità e la complessità dell’alterità, che cancella ogni riconoscimento della dignità e unicità dell’individuo alimentando un odio strutturale e una violenza istituzionalizzata.

Nel corso della storia questa dinamica contro gli ebrei ha assunto forme diverse ma simili: è passata dall’antigiudaismo di matrice religiosa, che colpevolizzava la fede, all’antisemitismo razziale del XIX e XX secolo, che ha trasformato l’odio in persecuzione razziale e genocidiale, fino all’antisionismo politico contemporaneo, che maschera sotto motivazioni istituzionali un pregiudizio etnico profondo.

L’ebreo che attraversa nazioni, tradizioni, possibilità, rimanendo se stesso (individualizzato ma al contempo interconnesso nello spazio e nel tempo) diviene minaccia ontologica perché ricorda all’Io rigido e separato la sua illusorietà. In questo senso, ogni pogrom, ogni Shoah, ogni slogan razzista diventa l’amputazione di una parte del Tutto che si pensa separata, il fallimento più tragico del “conosci te stesso”. La natura dell’odio sta quindi nella negazione della relazione e della comunione cosmica fra esseri umani. È la ribellione del figlio alla grande famiglia umana di cui parlava Papa Giovanni Paolo II, quella incapacità di riconoscere nell’altro un “sé” sacro, simile e interconnesso.

In questo senso, ogni episodio di antisemitismo contemporaneo non è solo un fallimento morale e politico, ma un fallimento ontologico: l’universo che combatte disperatamente contro una parte di sé, si illude di sconfiggere il “nemico” quando in realtà ferisce la rete olografica in cui ogni parte contiene informazioni sull’intero.

Nella tradizione classica, Aristofane ci ha offerto una riflessione profonda e ironica sulla natura della violenza. Nelle sue commedie, come Lisistrata e La Pace, la guerra appare come una follia collettiva che nasce dall’oblio della ragione e dell’armonia naturale, la dimenticanza dell’ordine implicito.

Il drammaturgo denuncia l’assurdità della distruzione e propone una forma di resistenza pacifica fondata sul dialogo, sull’amore e sulla convivialità: la pace come ritorno all’equilibrio originario tra l’uomo e il cosmo. Stesso insegnamento che riprende Mosè Maimonide nella tradizione rabbinica: la violenza per lui è la negazione della legge divina razionale, un errore che nasce dalla misconoscenza del bene e dalla trasgressione del rispetto dovuto all’altro, anch’esso riflesso del cosmo.

In questa stessa chiave, San Tommaso d’Aquino introduce la nozione di legge naturale e la conseguente necessità di custodire un ordine divino, da cui nasce anche il diritto alla difesa giusta, mentre il peccato originale rappresenta la frattura ontologica dell’uomo dal proprio vero essere e dal prossimo. E la strada verso la pace e la riconciliazione si fonda sul riconoscimento reciproco in un dialogo di carità e rispetto dell’ordine implicito in ogni cosa perché la natura come insieme delle cose create è opera di Dio, causa principale di tutto ciò che avviene nella natura. Questo ordine implica che ogni “ente” ha una sua finalità e un suo fine ordinati verso Dio come fine ultimo.

Come osserva Eric Voegelin, la violenza moderna è allora figlia della chiusura dell’anima al trascendente: quando l’uomo tenta di sostituirsi all’ordine cosmico, trasformando l’energia spirituale in volontà di potenza, nasce la patologia del dominio, l’oblio dell’ordine che si fa disordine storico.

Secondo Friedrich von Hayek, è fondamentale preservare e rafforzare confini sociali e individuali permeabili, tutelati dalla legge come espressione di un ordine imparziale che protegge la libertà senza sopraffazione, evitando così che l’irrigidimento di questi sfoci in conflitti e coercizione. Evidenzia Rudolf Steiner, che la crescita della coscienza spirituale e della consapevolezza apre l’individuo a un orizzonte di responsabilità e solidarietà, dissolvendo le barriere illusorie tra sé e l’altro, pertanto, solo promuovendo un dialogo fondato su carità, empatia e rispetto, sarà possibile sanare le ferite della frammentazione lottando contro quell’amnesia cosmica che genera la violenza.

In questa sintesi, la via della pace e della riconciliazione si configura come un cammino di rigenerazione permanente, dove i confini sono spazi di manifestazione dell’unità nella diversità.

Nel suo studio della storia delle civiltà di Arnold J. Toynbee, afferma non a torto che esse si dissolvono quando smarriscono la loro energia spirituale originaria e non riescono più a rispondere creativamente alle sfide del tempo. La violenza, in questo senso, è il segno della loro decadenza: il momento in cui la società, dimentica della propria vocazione trascendente, tenta di sostituire la creatività spirituale con la coercizione materiale.

L’essere umano ha il compito di preservare e ristabilire una “coerenza interiore” attraverso la riconnessione consapevole con sé stesso, con gli altri e con l’infinito. Questo processo agisce come un antidoto antiviolenza, perché promuove dialogo, responsabilità e unità profonda. È necessaria una “riconciliazione epistemica” e culturale: un processo di revisione critica e consapevole anche delle narrazioni storiche, sociali e culturali che hanno legittimato e giustificato l’odio e la prevaricazione.

Solo quando l’uomo ricorda di essere un’onda dell’oceano universale e non una particella isolata nel nulla, torna al “Tutto” e trova la serenità olimpica perché “Bisogna essere un mare per ricevere un fiume inquinato senza diventare impuro”.


di Antonino Sala