venerdì 14 novembre 2025
Guillermo del Toro adatta in maniera personale il romanzo di Mary Shelley. Il suo Frankenstein è un apologo doloroso e romantico sull’impossibilità dell’amore. Dopo la superba e cupa rilettura del collodiano Pinocchio, il regista messicano firma il tredicesimo lungometraggio, “il suo film del cuore”, mettendo in scena una storia ambientata nella seconda metà del XIX secolo e narrata da due punti di vista. La prima prospettiva è quella del barone Victor Frankestein (un frenetico Oscar Isaac). Il giovane, figlio di un celebre e rigoroso chirurgo del Settecento (l’altero Charles Dance), è uno scienziato ossessionato dall’idea di superare la morte. Per queste ragioni, in una torre gotica al cui centro figura un canale che appare come fatale un buco nero, s’impegna nella creazione di un nuovo essere umano, frutto dei pezzi dei cadaveri di criminali impiccati. L’impresa viene finanziata grazie al sostegno economico del facoltoso Harlander (un misurato Christoph Waltz), del fratello William (un etereo Felix Kammerer) e della fidanzata di quest’ultimo Elizabeth (una passionale Mia Goth). Il secondo sguardo narrativo è quello della cosiddetta Creatura (un magnetico Jacob Elordi), ispirata alle illustrazioni di Bernie Wrightson.

Un uomo magnifico e terribile, eppure immortale, dotato di una forza eccezionale e di una spasmodica sete di affetto e conoscenza. Il racconto tripartita del cineasta Premio Oscar, contrappuntato dalle musiche struggenti di Alexandre Desplat, è un viaggio ai confini del mondo e dei sentimenti. La narrazione prende le mosse da un preludio ambientato al Polo Nord, dove, una nave danese in missione, guidata dal capitano Anderson (un ieratico Lars Mikkelsen), è rimasta bloccata nei ghiacci artici. Victor Frankenstein viene trovato gravemente ferito e portato a bordo. Ma il salvataggio scatena l’ira della Creatura che, nonostante il fuoco aperto dai fucilieri, si scaglia contro la nave. Durante l’attacco, il barone racconta la genesi del suo esperimento. In seguito, la Creatura, sopraggiunta al cospetto di Victor, narra che, dopo l’esplosione della torre in cui lo ha imprigionato lo scienziato, si è rifugiato nel capanno di una fattoria. In quel luogo infestato dai topi, ha osservato un vecchio cieco (un paterno David Bradley) che ha insegnato a leggere alla nipote. Da quell’uomo, una sorta di dumasiano abate Faria, ha imparato a formulare pensieri articolati e profondi e soprattutto, a riconoscere la gratitudine. Per queste ragioni, quando l’uomo è assalito da un branco di lupi, lo difende e lo salva.
Il film, dagli evidenti echi lynchiani, coppoliani e burtoniani, mostra l’originale visione di un universo narrativo di cui si fa portavoce il disperato romanticismo incarnato dalla Creatura. Il regista, da sempre attratto dalla possibilità di firmare un progetto su Frankenstein, ha ammesso di essere rimasto affascinato dalla celebre versione diretta da James Whale nel 1931 e interpretata dal mitico Boris Karloff. Il film di Guillermo del Toro, prodotto da Double Dare You, Demilo Films, Bluegrass 7, presentato in anteprima assoluta in concorso all’82ª Mostra del cinema di Venezia e distribuito dal 22 ottobre in sole dieci sale da Lucky Red, dal 7 novembre è visibile su Netflix. Il racconto, visivamente, si dipana sui contrasti cromatici, che diventano opposti concetti filosofici e morali. Da una parte, il rosso vivido del sangue delle cavie umane, dall’altra il biancore dell’avorio e il pallore, letteralmente cadaverico, della Creatura. La morte pulsante che si tramuta in vita perpetua. A differenza della chiave tipicamente horror del fallimentare Frankenstein di Kenneth Branagh, Guillermo del Toro, seppure cerchi di attribuire un valore universale alla propria materia narrativa, non rinnega mai la sua poetica dedita a un’umanità solitaria.
di Andrea Di Falco