La dea della semplicità

giovedì 13 novembre 2025


Silvia Mezzanotte è entrata e uscita due volte dai Matia Bazar. Pochi credevano che questo gruppo tormentato, ma raffinatissimo, nato nel 1975, sarebbe riuscito a trovare una voce paragonabile a quella di Antonella Ruggiero, uscita dal sodalizio quindici anni dopo la sua fondazione.

Ora di anni ne sono passati cinquanta, Silvia ha dato prova di non far rimpiangere le doti vocali della prima donna dei Matia, e c’è di più: chi ha assistito al concerto in cui canta Mina, una tournée nazionale che nei giorni scorsi ha toccato il teatro Olimpico di Roma, ha pensato che abbia forse superato il mito che l’ha preceduta.

Interpretare un cantante in vita potrebbe essere azzardato, il confronto è sempre impietoso. Nel caso della Tigre la situazione è diversa: si ritirò dalle scene nel 1978, dunque, ascoltare dal vivo l’originale è impossibile. Il problema, semmai, è trovare una voce che possa essere paragonata (mai sovrapposta) a quella originale. C’è una seconda osservazione: le cover band sono composte da musicisti di diversa estrazione e levatura, ma molto raramente una star, anche se minore, interpreta il repertorio di un’altra star: Silvia ha osato, e ha raccontato di aver maturato negli anni, con calma, il coraggio di compiere imprese del genere. 

L’uditorio, non giovanissimo, si immerge negli adorati anni Sessanta. A metà della serata una breve uscita di scena: sostituisce un vestito austero con una minigonna, e annuncia civettuolamente (traduzione, si vanta) di avere cinquantotto anni: decennio per decennio ha migliorato le sue performance, rovesciando qualsiasi schema naturale dalla nascita del mondo. Se non fosse stato così non si sarebbe azzardata a cantare Brava, la canzone di Vito Pallavicini il cui testo, scritto dalla stessa Mina sessant’anni fa, fu un’ironica autocelebrazione, riproducibile solo da una voce e da una donna straordinaria come lei.

Cioè, da Silvia Mezzanotte, che sembra voler stravolgere le nuove regole della comunicazione musicale, fatte di fuffa social condita con tanta aria e contorno di tette. Lei fa il contrario, offre tanta sostanza accontentandosi dell’accompagnamento di un gruppo piuttosto modesto, Le Muse, dirette dal simpatico Andrea Albertini.

Arrangiamenti a tratti improbabili, strumentiste di secondo piano, Le Muse si esibiscono in teatri e ambasciate, ma chi ha in testa gli originali, pur considerando le proporzioni numeriche fra l’orchestra di Bruno Canfora e un ensemble, percepisce la sua inadeguatezza nei confronti di una voce come quella di Silvia.

Altro tema, la scaletta. Ci si chiede se sia stata scritta da un dilettante o la Mezzanotte sia andata a braccio: il risultato è esattamente il contrario di quello che sarebbe stato degno di una dea come lei. I suoi racconti, che servono anche a far riposare la voce, sono un tenero canale di comunicazione con il pubblico: una ragazza emiliana che sperava di avere successo e finalmente c’è riuscita. Ricorda i concertini in provincia di Modena, poi fa cantare il pubblico, spara qualche battuta, ringrazia amici, parenti, il marito, presente in sala.

È tenera e semplice, come le rezdòre emiliane. È coccola, piace. E piacerebbe anche se cantasse con una voce infinitamente più modesta di quella che ha la fortuna di avere, e che non risparmia per tutto lo spettacolo. Quando il concerto sembra finire lei riprende, in barba a qualsiasi schema, come se concedesse diversi bis impliciti.

Silvia Mezzanotte può gestire la propria voce in vari modi: relegando il proprio personaggio all’interno di un’assoluta aristocrazia sonora oppure dimostrando che il suo talento è di tutti e che essere una eterna ragazza sorridente fa bene all’animo.

Suo e di chi trattiene il fiato mentre lei canta Insieme, e le bastano Due note per far sognare.


di Gian Stefano Spoto