“Un semplice incidente”: un mostro in panne

venerdì 7 novembre 2025


Un uomo alla guida; sua moglie incinta accanto a lui e una bambina piuttosto esuberante confinata nei sedili posteriori, che insiste a introdurre nello spazio tra i due sedili anteriori il suo fastidioso peluche, agitato come un essere vivente seppur inanimato. Al pari di tante anime morte dei complici silenti o attivi di un regime sanguinario, che opprime, acceca e carcera la sua migliore gioventù. Solita strada sconnessa di uno Stato fallito e feroce, fatta di buche e dossi, con i fari che scrutano e fendono incerti una notte senza luna, mentre ombre rapide attraversano la strada. Poi, un urto con un ostacolo imprevisto (un povero cane), e la macchina che di lì a poco si ferma e un motociclista meccanico che aiuta, aggiustandola alla meglio per ripararla poi nel suo garage, e lasciarla così alle cure del suo assistente Vahid (Vahid Mobassen). Un semplice incidente, nelle sale italiane dal 6 novembre, del regista Jafar Panahi è una sorta di sliding door, per cui tutto poteva, come non poteva accadere, scorrendo i relativi eventi alternativi su due binari paralleli: quello senza l’incidente; e l’altro opposto con l’incidente. Perché l’autista misterioso con la gamba di legno (per questo soprannominato Eghbal, interpretato da Ebrahim Azizi), e l’aiuto meccanico Vahid hanno una storia che s’intreccia drammaticamente all’interno delle prigioni dell’Iran sciita, dove basta poco o nulla per finire recluso e subire torture di ogni tipo. Ma se è relativamente facile catturare Eghbal (che fino all’ultimo nega la sua identità), sequestrandolo in un furgone preso a prestito, non lo è altrettanto farsi giustizia da soli, scavando in solitario una fossa in una zona desertica, dopo aver legato e imbavagliato il proprio presunto nemico, senza avere l’assoluta certezza della sua identità.

Così, inizia per Vahid il calvario della ricerca di testimoni per non commettere ingiustizia nei confronti di un innocente, perché, dice Panahi, i torturati non debbono comunque mai comportarsi con la stessa disumanità dei loro torturatori. La prima a essere contattata è Shiva (Mariam Afshari) una fotografa di professione, donna bella, fiera e senza velo, che per caso sta svolgendo un servizio fotografico per una coppia di sposi, con la giovane donna in abito nuziale, Golrokh (Hadis Pakbaten) che, a sua volta, ha subito violenza da Eghbal. Ed è proprio Shiva a individuare nel suo ex fidanzato Hamid (Mohamad Ali Elyasmehr), dai modi bruschi e dal carattere apparentemente violento, l’unico testimone in grado di verificare, fuori da alcun dubbio, l’identità del sequestrato. Ma, per chi non nasce criminale, l’idea del colpo alla nuca da mitico giustiziere è qualcosa che non appartiene alla sua natura, per cui la caccia all’uomo non esimerà il gruppo di torturati dal mescolarsi con il giusto e l’ingiusto, con i casi della vita che vedranno intrecciarsi sul loro percorso di approssimativi giustizieri il pianto dirotto di una bambina rimasta da sola, che chiede disperatamente aiuto e soccorso nei confronti della propria madre, implorando per il suo ricovero urgente in ospedale. E nessuna delle vittime, pur sapendo di rischiare la propria vita in caso si venisse scoperti, arriva a rinunciare alla propria umanità per sete di vendetta, preferendo assistere piuttosto i piccoli affamati e consolarli per quanto possibile nel loro dramma. Anche se poi, in qualche modo, bisognerà pur far confessare il torturatore Eghbal, smascherato con assoluta certezza da Hamid, l’unico che vorrebbe esercitarsi da boia, ma che alla fine non perderà la sua dignità di uomo andando sino in fondo al suo proposito.

Così, le verità delle ferite di quella gamba, il sudore e la voce dell’aguzzino, che le sue vittime non dimenticheranno mai, saranno come tante tessere a incastro che finiranno per disegnare il definitivo identikit del mostro. Il quale, però, non è tale fino in fondo, perché anche per lui Panahi ha un bisturi interno in grado di vivisezionare il pensiero di un uomo allo sbando, un reduce di guerra con la gamba persa in Siria, nella guerra civile vinta dal dittatore, grazie all’aiuto delle milizie sciite iraniane di cui il torturatore faceva parte. Eghbal che tiene famiglia e che ama sua moglie e sua figlia al di sopra di ogni cosa, disposto persino a perdonare i suoi sequestratori, scoprendo che hanno aiutato quella donna sconosciuta a partorire. Perché il destino delle vittime e dei loro carnefici è sempre sporco, constatato che l’impulso al delitto sta anche nell’uomo più mite quando si vede espulso dal proprio nido sociale, coltivato con tanta fatica e perduto solo per un’opinione, un fiato traditore, qualcuno che ha parlato sotto tortura, che ha fatto nomi soltanto per salvare il suo destino comunque perduto. Solo, terrorizzante, resta sospeso il passo claudicante dell’aguzzino, che risuona lugubre sul selciato della vita di chi ha rinunciato alla vendetta, ben sapendo che il suo nemico risparmiato non lo perdonerà.

Voto: 8,5


di Maurizio Bonanni