venerdì 31 ottobre 2025
C’è un brano che sembra nascere non dalle mani di un uomo, ma dal respiro stesso della Spagna. Si chiama Asturias (Leyenda), e lo compose Isaac Albéniz, uno di quei musicisti che portavano nel cuore il sole, la polvere, e le ombre della loro terra. Albéniz lo scrisse per pianoforte, ma da più di un secolo è diventato uno dei capolavori della chitarra classica. È curioso, perché il suo titolo parla del Nord, delle verdi montagne delle Asturie, ma la musica racconta tutt’altro: parla del Sud, dell’Andalusia, del flamenco, del ritmo dei piedi che battono sulla terra e delle voci che cantano l’anima.
Il brano inizia piano, con un ritmo misterioso e regolare. La mano sinistra ripete un motivo continuo, come un tamburo lontano, o come un rasgueado, quel colpo di dita che il chitarrista lancia sulle corde. Sopra, la melodia sale e scende come un canto antico, dolente e orgoglioso. È il cante jondo, il “canto profondo” andaluso, dove la musica è dolore e preghiera allo stesso tempo. Albéniz riesce a far sembrare il pianoforte uno strumento a corde pizzicate: le sue note brevi, i salti rapidi, i ritmi spezzati imitano il linguaggio della chitarra flamenca. Chi ascolta, anche senza conoscere la musica, sente che qui c’è passione, fuoco, e un po’ di mistero.
Dopo la prima parte, intensa e scura, arriva un momento di calma. La musica cambia colore: passa in maggiore, e il suono si apre come una finestra sulla luce. È come quando, dopo la tempesta, si vede il sole che ritorna. Qui Albéniz mostra il suo lato più tenero, quasi romantico: il pianoforte canta, come se raccontasse un ricordo o una leggenda d’amore. Ma la pace non dura troppo. Poco a poco, il ritmo antico ritorna, la tensione cresce, e la danza riprende con forza fino alla fine: un grido, un colpo secco, e il brano si chiude. È una leggenda senza parole, ma piena di immagini, come un racconto raccontato con il suono.
Anche se scritto per pianoforte, il brano trovò la sua vera voce nella chitarra. Il grande chitarrista Francisco Tárrega lo trascrisse, e da allora ogni grande interprete lo ha suonato: Andrés Segovia, Julian Bream, John Williams, Ana Vidović, Milos Karadaglić. Ognuno di loro vi ha trovato qualcosa di diverso: chi la forza del vento, chi il silenzio della notte, chi la malinconia del sole che tramonta dietro una collina spagnola.
Se Asturias fosse un quadro, potrebbe essere un dipinto di Francisco Goya: luci violente e ombre profonde, la passione del popolo e il mistero del sacro. Oppure un paesaggio di Joaquín Sorolla, dove la luce del Sud vibra sull’acqua e sulla pelle dei pescatori.
E se fosse poesia, sarebbe quella di Federico García Lorca, che nei suoi Romanceros gitanos racconta gli zingari, la notte, la luna, la morte e la danza. Oppure quella più malinconica di Gustavo Adolfo Bécquer, con i suoi sogni e le sue leggende sospese tra realtà e fantasia. Tutti, come Albéniz, cercavano la stessa cosa: l’anima nascosta della Spagna, quella che non si vede, ma si sente.
Oggi, più di cento anni dopo, Asturias (Leyenda) continua a vivere. Ogni volta che un pianista o un chitarrista la suona, sembra risvegliare qualcosa di antico. È una musica che parla di terra e vento, di orgoglio e malinconia, di fuoco e silenzio.
Albéniz, con le sue note, ha scritto una poesia senza parole, dove la tecnica incontra l’anima, e la musica diventa racconto, memoria, sogno.
di Stella Camelia Enescu