martedì 28 ottobre 2025
Quale è, dunque, L’importanza di chiamarsi Ernesto nell’opera teatrale di Oscar Wilde, in scena alla Sala Umberto di Roma, fino al 2 novembre, per la regia di Geppy Gleijeses? Solo rileggendo il relativo copione si è in grado di capire come questo, in realtà, sia stato per l’epoca lo spettacolo (la cui prima assoluta si tenne a Londra il 14 febbraio 1895 al St James’s Theatre) più dissacrante nei confronti dell’intera buona società inglese di Fine Ottocento, in cui vengono messi alla berlina i tantissimi vizi e oscurate le sia pur minime sue virtù. Il progetto ideale della vendetta socio-intellettuale, con la conseguente rivendicazione dell’eterodossia dei costumi da parte di Wilde, risiede nel termine di “bunburismo”. Una pratica perversa e godereccia quest’ultima dell’utilizzo dell’amico immaginario nella prima infanzia, che si traduce in età adulta nella liceità del libertinaggio e della liberazione amorosa dei sensi, attribuita al triangolo, nel caso degli uomini (e delle donne) felicemente coniugati. Perché, se non c’è di mezzo il terzo uomo/donna la vita affettiva è, in fondo, grigia, spenta e miope, restando chiusa tra le quattro mura monastiche della rinuncia (sempre colpevole e mai condivisibile) ai piaceri del mondo. Sia che si tratti di appetiti sessuali, che di autentici peccati di gola. Così, viene suggerita la pratica dell’amico Bumbury da andare a trovare a comando, e quando fa strategicamente più comodo, vuoi perché traviato e dissoluto, vuoi perché molto malato. In questo caso specifico, Bumbury ha la pessima abitudine di avere ricadute gravi della sua malattia proprio in prossimità del week end. Mentre nell’altra versione, assume le vesti di un fratello dissoluto residente a Londra, per cui il nobile di campagna è costretto (eticamente) ad allontanarsi dalla sua residenza, per andarlo a recuperare in qualche posto malfamato della grande città, dove guarda caso abbondano distrazioni e piaceri di ogni tipo, per chi, naturalmente, se li può permettere.
Ora, la faccenda bunburista in questione riguarda due amici per la pelle, Jack Worthing (Giorgio Lupano) e Algernon Moncrieff (Luigi Tabita), gentiluomini inglesi benestanti, con il vizio del dolce far niente. Algernon, padrone della casa londinese in cui ospita l’amico che viene dalla campagna, è il fantomatico fratello bumburista di Jack, dissoluto e libertino; mentre invece Mr. Bumbury è quell’amico immaginario di Algernon che si ammala gravemente a comando, ogni volta che lui ha necessità di allontanarsi dalla propria abitazione per le sue scorribande di libertinaggio vario. In pratica, Algernon-Wilde, e Lady Bracknell (una bravissima Lucia Poli) sono i due cardini sui quali ruota e stride tutta l’ironia dissacrante e caustica dell’autore irlandese, i cui bersagli privilegiati sono l’assoluta, vuota inconsistenza della società perbenistica e puritana dell’epoca. Nella pièce viene severamente fustigata l’ipocrisia del matrimonio di comodo (solo quello d’interesse e combinato in base a quest’ultima, fondamentale esigenza), fatto di sostanze, rendite, possedimenti, denaro, che non sono mai frutto del sudore, ma bensì di lignaggio ereditario, come i nomi e le case di residenza. L’altra faccia della medaglia, altrettanto densa di pruderie relative al notabilato e alla borghesia agiata, trova i suoi mille refusi, contraddizioni e velate perversioni nelle figure femminili. Così, le due fidanzate Gwendolen Bracknell e Cecily Cardew, scelte in base ad assai improbabili colpi di fulmine, carichi di elettrica superficialità come la folgore, condensano nelle loro figure quanto di più frivolo e di anticonformista si potesse immaginare per l’epoca.
Entrambe innamorate a prescindere del nome “Ernesto”, per cui non potrebbero, a loro dire, amare nessun altro che non portasse proprio quel nome lì. La trama è così straordinariamente combinata, che il destino si raccorderà nel finale nella riscoperta che “Ernesto” è il vero nome di uno dei due protagonisti maschili. E basterebbe solo questo a chiudere il cerchio ideale della misoginia di Wilde nei confronti dell’altro sesso. Perché, nella proiezione mentale del grande autore, la preferenza femminile va verso ciò che si sostanzi come una rottura degli schemi socio-comportamentali, visto che una figura maschile corrotta e libertina, venata da una curvatura maligna, è sempre una creatura redimibile agli occhi di una donna. La preferenza femminile, cioè, va verso la figura del maschio sempre un po’ dissoluto che, con i suoi comportamenti devianti, genera e suscita vero interesse per scuotere la noia del quotidiano, cadenzato da lezioni di pianoforte, di tedesco e di economia delle colonie indiane. Ma è soprattutto la carica energetica senile di Lady Bracknell, esperta donna di mondo e assidua frequentatrice dei salotti bene londinesi, a racchiudere l’intero scrigno delle gemme di ipocrisia, che fanno da corona regia alla società bene dell’epoca. Lei che considera un “reazionario progressista” come un sincero conservatore.

Sue sono le clamorose stoccate sulla formazione scolastica, laddove si dichiara: “molto contraria a tutto ciò che può interferire con una naturale ignoranza. L’ignoranza è come un delicato frutto esotico: come lo si tocca, il suo fascino è perduto. Le teorie educative del giorno d’oggi sono fondamentalmente assurde. In Inghilterra, comunque, grazie a Dio, l’educazione non produce il minimo effetto. Non fosse così, ne deriverebbero gravi inconvenienti per le classi superiori, destinati probabilmente a sfociare in atti di violenza”. Vale la pena, per capire lo straordinario contributo critico di Wilde sulla sua epoca, riportare integralmente altri due passaggi testuali: “Algernon: tutte le figlie femmine diventano come la loro madre. Questa è la tragedia delle donne. Nessun maschio lo diventa: e questa è la tragedia degli uomini”. “Jack: L’intelligenza, non la posso più soffrire. Al giorno d’oggi sono tutti intelligenti. Non si può andare da nessuna parte senza incontrare gente intelligente. È veramente una calamità nazionale. Darei non so che cosa perché ci fosse ancora un po’ di gente stupida”.
di Maurizio Bonanni