lunedì 6 ottobre 2025
È, quindi, possibile amare la vita anche quando si è malati terminali, apparentemente in buona forma? Alba Rohrwacher, la brava protagonista del film Tre ciotole (in uscita nelle sale italiane dal 9 ottobre), risponde di sì. Elio Germano, invece, preferisce in conferenza stampa elaborare un pensiero più complesso, entrando nel vivo dei personaggi che, come il suo, a partire dalla grande tragedia personale della sua ex compagna, possono migliorare il proprio vissuto presente, traendone motivazioni etico-sentimentali (come la pietas e l’amore vero), mai prima così intensamente sperimentate. Il film, diretto dalla spagnola Isabel Coixet, si ispira liberamente, ma solo in minima parte, al libro omonimo di Michela Murgia, che è invece un testo di racconti, mentre qui si tratta della storia di Marta (Rohrwacher), una giovane donna, che scopre di essere una malata oncologica terminale e decide, dopo la drammatica scoperta, di interfacciarsi in modo inconsueto e originale con il suo mondo degli affetti e del lavoro. E, come sostiene Germano, sarà proprio la “contaminazione” della sua malattia verso le persone che ama, o ha amato, che le aiuterà a ricevere una spinta vitale proprio da colei che sta vivendo l’esperienza di come sia facile perdere in un solo attimo il proprio futuro e, di conseguenza, tutto ciò che si ha nella vita presente. Ed è proprio questo progressivo, ineluttabile scomparire del “domani” a stravolgere tutte le certezze e le abitudini quotidiane della protagonista.
Lei, Marta, è un’eccentrica giovane donna, abbastanza insopportabile nelle sue piccole, grandi manie, come lo sono i suoi dialoghi sincopati e vagamente ossessivi con il proprio compagno Antonio (Germano) e con i collegi del liceo, in cui insegna ginnastica. Comportamenti alquanto sui generis (e decisamente innocui!) che vanno da abitudini alimentari quantomeno aberranti, immortalate dai rapidissimi pasti casalinghi in solitario, dove Marta cosparge (disgustosamente a freddo) un tubetto di ketchup su cibi precotti conservati in frigorifero; per finire alla passione sfrenata per una città eco sostenibile da attraversare solo in bicicletta. Così, a gettare la spugna dopo sette anni di convivenza è il suo compagno di vita, Antonio (un bravo Elio Germano), aspirante cuoco stellato, che riuscirà nel suo sogno di aprire e gestire un piccolo ristorante per veri intenditori. A starle testardamente vicina, malgrado il suo carattere insopportabile, sarà sua sorella Elisa (Silvia D’Amico), la vera grandissima amica di Marta, nella sua veste di giovane donna sana che incarna “una disperata vitalità”, sperando nel contagio per induzione della sorella, affinché possa ricevere un valore aggiunto di energia per domare un male incurabile, e sopportare meglio la chemioterapia. Non perfettamente riuscito è, invece, l’inserimento come improbabile oncologa di Sarita Choudhury, nel ruolo della dottoressa Benati, che nei suoi dialoghi approssimativi non riesce a rendere con efficacia il dramma interiore di Marta.
Interessante, invece, è il ruolo distruttivo e autodistruttivo della protagonista che, abbandonata dal suo compagno, ne denigra le (indubbie) virtù culinarie sui social specializzati. E lo fa in base a una modalità solipsistica, seduta sul letto vuoto a metà. Costantemente spettinata, senza cura di sé, Marta osserva il suo mondo disfarsi, con particolare riferimento ai suoi giovani allievi, scoprendo di nascosto pratiche autolesioniste (vere e proprie prove di coraggio per affrontare un ambiente ostile) da parte di due ragazze della classe, chiuse in un mondo privo di dialogo tra adulti e adolescenti. Anche qui, come nel finale, emerge il ricordo di usi antichi, come il pranzo dei morti per gli invitati al funerale, o le pratiche di iniziazione degli indiani d’America e di varie tribù africane, in cui la “scarification”, o scarificazione, determina il passaggio simbolico, celebrato da tutta la comunità di appartenenza, dalla pubertà all’età adulta. Ma Marta l’eccentrica, proprio grazie al suo essere così diversa dalle altre persone che frequenta, riesce a cogliere l’attimo sublime (che pur esiste sempre anche in un’esistenza travagliata) nello sguardo innamorato di un suo collega di classe, che la introduce in un universo in via di estinzione, come quello della filosofia, facendo sì che l’origami di Antonio si allontani lungo la via d’acqua della vita, come accade nei riti orientali di commemorazione dei defunti.
Le Tre ciotole, con cui Marta accompagna i suoi pasti durante la chemioterapia, dividendo il cibo in tre categorie nutritive elementari, rappresentano il tentativo di razionalizzazione di una fine imminente, il dare cioè un ordine all’anarchia e al disordine che l’hanno (a suo giudizio) irresponsabilmente condotta alla malattia, ignorando la forza irresistibile della genetica e dei suoi precedenti in famiglia. Film empatico, come La forza de destino.
Voto: 7,5/10
di Maurizio Bonanni