giovedì 2 ottobre 2025
Il nome di Yukio Mishima evoca un’immagine potente e controversa: quella di un guerriero, un esteta, un filosofo che visse e morì secondo un codice d’onore che pochi oggi oserebbero emulare. La sua storia non è solo la cronaca di una vita, ma l’epica di un’anima in perenne conflitto, un ponte tragico e magnifico tra la modernità e le radici più profonde della tradizione giapponese.
Nato Kimitake Hiraoka, Mishima scelse il suo pseudonimo per celare la sua identità di scrittore ai suoi familiari, ma fu con quel nome che si forgiò un’immagine iconica, scolpita tanto dalle sue opere quanto dalla sua stessa vita. La sua esistenza fu una ricerca incessante della bellezza, dell’eroismo e della purezza, un’odissea personale che lo portò a esplorare i confini dell’arte, del corpo e dello spirito.
Fin dai primi successi letterari, Mishima dimostrò una sensibilità unica, capace di sondare gli abissi dell’animo umano con una prosa sontuosa e tagliente. Opere come Confessioni di una maschera, Il padiglione d’oro e la tetralogia Il mare della fertilità non sono semplici romanzi, ma affreschi complessi di una società in mutamento, specchio delle sue ossessioni per la bellezza effimera, la morte e la decadenza. La sua scrittura era un’arma, affilata e precisa, con cui indagava la natura dell’identità, il desiderio e la fragilità dell’esistenza.
Ma Mishima non fu solo uno scrittore. Il suo corpo, inizialmente fragile, divenne un tempio scolpito attraverso un rigoroso allenamento fisico. La boxe, il kendo, il sollevamento pesi non erano solo discipline, ma un modo per forgiare il suo spirito, per ricongiungersi con l’ideale del guerriero, del samurai, che vedeva svanire nel Giappone del dopoguerra. Per lui, il corpo era un’espressione dell’anima, una tela su cui dipingere la propria filosofia.
La sua filosofia era un grido disperato contro l’occidentalizzazione e la perdita dei valori tradizionali giapponesi. Mishima venerava l’Imperatore come simbolo sacro e inviolabile del Giappone, e vedeva con orrore la deriva materialistica e la perdita del senso del sacrificio e dell’onore. Fondò la Tatenokai (Società degli Scudi), un esercito privato composto da giovani patrioti, non per sovvertire, ma per risvegliare, per proteggere l’anima del Giappone da ciò che considerava una lenta agonia.
Ciò che rende la storia di Mishima così indimenticabile è il suo atto finale, il suo seppuku rituale del 25 novembre 1970. Dopo aver tenuto un discorso appassionato, ma inascoltato, alle Forze di Auto-Difesa, si ritirò nell’ufficio del comandante e si tolse la vita secondo l’antico rito samurai. Fu un gesto estremo, scioccante, che ancora oggi divide e affascina. Per alcuni, fu un atto folle di un megalomane; per altri, la sublime e tragica conclusione di una vita vissuta con coerenza assoluta ai propri ideali, un ultimo, disperato tentativo di scuotere il suo paese dal torpore.
Cosa resta oggi della storia di Yukio Mishima? Resta l’eco potente della sua prosa, che continua a illuminare le biblioteche di tutto il mondo, svelando le complessità dell’animo umano. Resta la provocazione della sua vita, un invito scomodo a riflettere sul significato di autenticità, bellezza e sacrificio. Mishima ci costringe a interrogarci sui valori che guidano le nostre vite, sulla ricerca di un significato profondo in un mondo che sembra sempre più privo di esso.
La sua figura, complessa e sfaccettata, ci ricorda che l’arte e la vita possono intrecciarsi fino a diventare un’unica, indissolubile opera. Yukio Mishima non fu solo un guerriero o uno scrittore; fu un uomo che, con ogni fibra del suo essere, cercò di vivere una vita estetica e filosofica, un samurai moderno che, anche nella sua fine più tragica, lasciò un’eredità che continua a risuonare, una sfida eterna alla nostra comprensione della bellezza, dell’onore e del destino umano.
di Alessandro Cucciolla