venerdì 26 settembre 2025
Negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del Novecento indubbiamente l’Italia e l’Europa hanno prodotto un enorme dibattito culturale; lo stesso avveniva prima negli anni Trenta, e poi tra fine Ottocento ed il primo decennio del Secolo breve. Indubbiamente la Belle Époque come fenomeno socio-culturale, musicale e artistico ha dato i suoi frutti in un periodo di corsa alla coesione sociale, e seguivano letteratura e cinema, teatro, arte, creatività in genere; il Futurismo italiano è nato su quel terreno. La Grande Guerra interrompeva solo momentaneamente le energie creative. Ma gli anni Venti e Trenta permettevano all’industria, al designer, all’architettura ed al cinema di arrivare ad esempi tuttora pressocché ineguagliati. La parentesi della Seconda guerra mondiale, davvero catastrofica, e poi riprendeva la corsa dell’uomo verso la ricerca tecnologica e la sedimentazione culturale.
Oggi in molti notano che tutto s’è fermato, che all’uomo italiano ed europeo viene impedito quasi tutto, e culturalmente la gente ha paura d’esprimersi. Tutti notiamo come la catastrofe duri da decenni, per via della guerra intestina all’Italia fatta di malagiustizia e fiscalità perversa e poi per gli ultimi e vicini conflitti internazionali. Non c’è attenzione alla cultura, al fare ed al dare le possibilità all’uomo, perché da troppo tempo la politica è tutta attenta ad altri interessi, lontani dalle nostre collettività. La politica di oggi si scontra sulla cultura, ma non crede alla forza culturale del fare.
Noi italiani subiamo lo scadimento della vita pubblica da almeno tre decenni. Negli anni Ottanta, quando il sistema italiano già dava i primi segni di cedimento (soprattutto dopo il caso Alberto Teardo), la cultura veniva ancora riconosciuta come capace di attivare trasformazioni che sfuggono alle metriche economiche tradizionali, ma che incidono concretamente su competenze, inclusione, partecipazione. L’esclusione sociale dei nostri giorni è profondamente radicata nell’incapacità culturale della classe dirigente. S’accapigliano su fascismo e comunismo e su antifascismo e anticomunismo, poi fanno facile scandalismo e moralismo da bar; grave è che reputino queste zuffe culturalmente importanti, determinanti per il Paese, che è bloccato su tutti i fronti.
Guerre, restrizioni d’ogni genere, mancanza d’opportunità di lavoro; senza calcolare l’interminabile stillicidio giudiziario e fiscale che perdura da almeno tre decenni. Si potrebbe continuare per ore ad elencare i mali che hanno bloccato l’Italia e negli ultimi anni anche l’Europa. In questo clima mefitico destra e sinistra s’azzuffano su tematiche tiepidamente culturali. Testimonianza di come la politica dia sempre meno importanza all’esistenza attiva e concreta dell’uomo, di come la classe dirigente sia sempre meno capace di mettere l’accento sul fare e sul lavorare, nonché dedicarsi al pensare: ultimo aspetto oggi sostituito dall’apparire mediaticamente.
Quindi l’uomo di strada si chiede dove si possa trovare cultura, conforto ai mali sociali. Soprattutto chi faccia e chi divulghi davvero cultura. Perché, pur vivendo come bestie o in ristrettezze, sono tanti gli italiani che leggono e s’informano e, pur svolgendo per bisogno lavori umili, hanno sacrificato gli anni giovanili in percorsi accademici. Ecco perché la gente comune con sale in zucca preferisce spegnere la tivù e forse non votare, delusa dal vuoto di proposte, dalla mancanza di novità, e da come la società venga quotidianamente umiliata dal potere. L’impressione più bonacciona è che destra, sinistra e centro, forse per paura giudiziaria del fare, preferiscano darsi alla commemorazione di eventi e defunti; ammantando di operazione culturale i festival musicali, il ricordo dei morti, o anche il fare convegni solo su storie di vita normali e del passato: così non si pensa e non si guarda all’oggi ed al domani. Quindi preferiscono pestare l’acqua nel mortaio, scontrarsi e contendersi un Gramsci che non conoscono.
EGEMONIA CULTURALE, QUESTA MISCONOSCIUTA
Alludo volutamente all’egemonia culturale, propria del pensiero di Antonio Gramsci, su cui destra e sinistra si scontrano ritenendo si traduca praticamente solo nel garantire poltrone, ricche consulenze e sprechi in Rai e manifestazioni di contorno. Partiamo col dire che Gramsci se lo sono tirati per la giacchetta da tutte le parti, non comprendendo che il suo concetto è altro e universale; e veste bene su qualsivoglia classe dominante che dimostri capacità di estendere la propria cultura (e i propri valori) su tutte le classi sociali. Ma questa era una critica di Gramsci al potere, non certo un consiglio machiavellico ai governanti. Ma, nell’assoluta ignoranza del pensiero gramsciano, destra e sinistra si scannano su chi tra loro debba convintamente persuadere il popolo.
Qui arrivano le dolenti note, soprattutto la mancanza d’ingredienti in politica: infatti per Gramsci l’egemonia veniva costruita dagli “intellettuali organici”, che diffondono l’ideologia della classe dirigente attraverso istituzioni come la scuola, i media e gli apparati che più incidono sulla vita sociale. Lo stesso Gramsci ammetteva che l’egemonia serviva a formare “una falsa coscienza nelle classi subalterne”. Quindi Gramsci guardava ad ingredienti sociali come la cultura ed individuali come i politici e gli intellettuali. Logico oggi chiedersi chi sarebbero gli intellettuali organici. L’impressione è che si siano scambiati i foderi per le spade, che al posto degli intellettuali la classe dominante abbia investito su guitti, maghi, ciarlatani: e chi sarebbero formatori degni se lo chiederebbero, oltre a Gramsci anche Gentile e Pareto. Perché nella società televisiva e dei social basta una frase ad effetto, spesso scopiazzata, per spacciarsi per formatore. All’epoca di Gramsci, Gentile e Pareto la lotta per il cambiamento sociale doveva necessariamente passare attraverso una guerra di posizione, per la conquista dell’egemonia culturale: erano intellettuali che elaboravano progetti di contro-cultura atti a formare nella gente una sorta di coscienza critica (per Gramsci atto necessario per formare le masse). Va detto che nel primo ‘900, secolo delle masse, le élite avevano in gran considerazione il consenso. C’era osmosi tra popolo e potere, “i corpi intermedi erano giovani e forti” (lo diceva anche Sturzo): così le classi dominanti erano coscienti di dover lavorare per creare consenso sociale e diffondere i propri valori, la propria visione del mondo. Oggi va detto che, alla classe dominante importa quasi nulla di come la pensi la gente, soprattutto il potere ha girato le spalle a pulsioni culturali che pongano al centro l’uomo; parimenti è stata data la precedenza ad un pensiero tecnologico e finanziario che esclude dalla partecipazione la maggior parte della popolazione.
Ecco perché gli pseudo-formatori sono oggi esempi da baraccone, mero spettacolo. Si tratta di persone che non diffondano cultura, non contribuiscono a formare una coscienza sociale (nemmeno allineata agli interessi della classe dirigente) perché le élite non hanno eletto alcun testimone del loro pensiero. Così capita che destra e sinistra si scannino sul giovane Charlie Kirk, dimenticando che è morto, che è stato ucciso un uomo: altro che contendersi l’egemonia culturale, qui si stanno azzuffando per mettere le mani sull’azienda di pompe funebri.
La Babilonia in cui viviamo non consente una buona e stabile classe dirigente e quindi che eventuali istituzioni culturali possano spalancare le braccia alla gente più creativa. In un tempo abbastanza recente la scuola, i mezzi di comunicazione di massa e tutte le istituzioni culturali erano strumenti fondamentali per veicolare l’ideologia dominante, forse come sosteneva Gramsci per “inculcare nelle masse una falsa coscienza”: rimane il fatto che, pur limitando lo sviluppo d’una coscienza critica, i passati regimi nazionali (dai primi governi unitari al Fascismo e fino alla Prima Repubblica) hanno permesso l’ascensore sociale nella partecipazione culturale italiana. La battaglia per l’egemonia è stata fino a una quarantina d’anni fa tra borghesia e proletariato, come prima lo era stata tra aristocrazia e borghesia. Gli intellettuali organici ai partiti (votati dalle classi subalterne) li abbiamo visti appoggiare un po’ tutte le aree politiche: elaboravano comunque una propria visione del mondo, autonoma, critica, fatta di esperienze personali, di retaggio culturale familiare e legato alla propria regione d’origine. La scuola d’un tempo era indubbiamente contaminata dalle tradizioni locali, priva di quella visione asettica ed estranea all’Italia: c’erano anche in passato le classi egemoni, ma oggi l’Italia subisce più di ieri una cultura estranea.
CONTROCULTURA E POLITICA
Ecco perché oggi la “controcultura” dovrebbe trovare spazio nelle scuole ed in ogni ambito di contaminazione: perché i giovani, gli studenti, abbiano la forza di contaminarsi con le tradizioni italiane, con la nostra lingua e con le sue influenze regionali (per esempio occitane a Nord e grecaniche a Sud).
Idee che non trovano spazio di confronto, e pare cadano nel nulla: nella totale indifferenza di formatori che probabilmente non avvertono il peso della responsabilità intellettuale, ovvero di diffondere la cultura popolare italiana, che è fatta anche di arti e mestieri che hanno permesso al proletariato di prendere l’ascensore sociale e farsi poi borghesi. Questa è stata l’attività dello spirito che s’è materializzata nella realtà, processo culturale alla base della nostra borghesia. Un processo di formazione e di realizzazione del sé, direbbe Giovanni Gentile, dove la persona diventa parte di un tutto più grande. Così, per permettere una tregua costruttiva tra destra e sinistra, si potrebbe anche ricordare loro che Gramsci e Gentile concordavano su una concezione di cultura organica e totalizzante, orientata soprattutto alla formazione di un nuovo tipo di uomo. Un uomo capace di realizzare un ideale. Ma qual è l’ideale che vorrebbero realizzare i dirigenti politici italiani? Per favore evitate di farvi quattro risate, o di ribattere con battutacce. Anche perché sia Gentile che Gramsci guardavano alla cultura come strumento di organizzazione politica e mobilitazione sociale. Quindi chiedo a chi ridacchia sulla politica odierna se mai aderirebbe ad una mobilitazione sociale. Chiedo questo perché, quello che manca ai partiti è la stessa coerenza di cui sono carenti i singoli individui e la stessa società. E duole che, specialmente in tempi di crisi, la politica e gli individui non producano che commemorazioni e disfattismo.
Ecco il problema di oggi, ovvero la mancanza di novità. Un problema tutto dovuto al moralismo serioso ed ignorante di cui è pregna quella politica che contrabbanda la cultura come mero accumulo statico di conoscenze. Oggi si ha paura che le idee possano creare realtà, ecco perché la classe dirigente blocca i progetti ed i sogni dei cittadini.
Soprattutto chi si riempie la bocca di cultura e di Gentile (ma anche di Gramsci e Pareto) dimentica che la cultura ha funzione politica e, oltre a rafforzare l’unità dello Stato, serve a formare una nuova umanità che rimanga in Italia per costruire un sistema ideale che appaghi la nostra vita spirituale, ed al punto di farci sentire soddisfatti del nostro operato: questa era la funzione della cultura per Gentile, una concreta manifestazione dello spirito, in grado di plasmare la realtà e gli individui. Ma, fino a qualche anno fa, la filosofia non immaginava potesse spuntare una classe politica impegnata a trovare giustificazioni alla fuga dei giovani cervelli.
Quindi ci chiediamo, al di là delle baruffe, quali le differenze tra le proposte culturali delle destre e delle sinistre? Dibattere con i “maranza” o proporre “quote arcobaleno” in scuole e ministeri? Nulla risulta chiaro, definito, praticamente realizzabile. Probabilmente, come sosteneva Vilfredo Pareto, la cultura politica è anche un riflesso degli stati psichici, di sentimenti ed istinti che guidano gli esseri umani. E sono infinite le giustificazioni intellettuali che li camuffano, anche in contrasto con azioni logiche o con coerenze dovute all’elettorato. Pareto distingueva tra azioni logiche, basate su un ragionamento, ed i mezzi per raggiungere un fine: quindi azioni non logiche, dettate da sentimenti, istinti e subcoscienza.
È certo che, chi s’è fatto classe dirigente soffre di non poche debolezze: ecco che necessita di giustificazioni intellettuali utili a mascherare i sentimenti. Pareto ci invita a considerare le narrazioni, le teorie e le favole come un materiale importante per comprendere aspetti culturali e pensieri degli esseri umani, che il più delle volte non sono basati su azioni logiche. Tirando le somme, la cultura influenza comunque il potere, ed a muovere il gioco è la circolazione delle élite: ovvero quel processo storico in cui le classi dirigenti cambiano, ma questo pare non succeda in Italia da qualche decennio. Le élite sono guidate da un insieme di sentimenti ed istinti, e lo vediamo anche dai pettegolezzi (favole) che circolano su Ursula von der Leyen o sui potenti di Davos: le loro debolezze o quelle dei loro amici e sostenitori vengono camuffate da giustificazioni intellettuali (le derivazioni di Pareto) quindi ce le impongono come parte del nuovo “bagaglio culturale” della nostra società (l’Agenda 2030 è solo un esempio tra tanti).
Ma, fortunatamente, c’è anche una coscienza popolare: soprattutto la scienza e la ragione non riescono a sostituirsi completamente alla nostra cultura, alla religione, all’etica. Fortunatamente la vita è anche guidata da elementi irrazionali, anche dal caso o dal fato. Azioni e teorie che non seguono la logica, ma rimangono guidate da sentimenti e istinti. Nell’irrazionale cova anche l’ultima cultura umana del fare, l’ultima società libera: il cui timore impone alla classe dirigente di non guardarci negli occhi, di spacciarci per cultura la commemorazione di eventi passati, e su questi creare inutili liti tra presunti politici.
di Ruggiero Capone