martedì 8 luglio 2025
Tra gli appuntamenti che ci ha riservato il mese di luglio, uno ha riguardato l’intervento di Mauro Di Ruvo presso l’evento Act Out Loud organizzato domenica 6 luglio da Recitazione Cinematografica: un incontro che ha radunato a Casale Traiano di Fiumicino centinaia di attori professionisti e non professionisti, registi e altri personaggi del mondo del cinema, nonché produttori e altri artisti, i quali sono stati attenti spettatori del discorso tenuto dal critico d’arte all’inizio dell’evento. Erano presenti anche doppiatori come Carlo Valli, famoso per aver interpretato più volte la voce di Robin Williams e il personaggio di Rex in Toy Story.
Mauro Di Ruvo si è espresso a favore d’una nuova società cinematografica, come quella promossa dal regista Alfonso Bergamo, in cui “l’anonimato diventi il primato”. Si riporta qui di seguito il discorso da lui tenuto en plein air, “Il cinema contemporaneo, tra paradigma del talento e sintagma dell’arte”.
“In molte occasioni istituzionali abbiamo sentito parlare recentemente di cinema del merito ma non del merito del cinema. Proprio fino a qualche giorno fa in cui l’attuale ministro Giuli ha citato i cosiddetti elementi meritevoli come motivi validi per l’investimento statale nel settore cinematografico.
Ebbene uno dei motivi altrettanto validi per cui il dialogo tra istituzioni e arte è sempre più di tipo conflittuale e sterile, è proprio la certificazione del merito, al posto dell’autenticazione del talento. Il merito è un valore deciso privatamente dall’alto, ex cathedra, e non condiviso pubblicamente dal basso, per questo l’Arte che, in tutte le sue espressioni, tra cui rientra il cinema, è il manifesto originale della democrazia, sta soffocando. Se soffoca l’arte è anche vero quindi che la nostra libertà di espressione, di opinione, e di pensiero sta subendo un processo di omologazione e assottigliamento davanti a un nuovo fenomeno che sta invadendo la nostra dimensione presente, come l’iconocentrismo.
La produzione televisiva e dei social media ha condotto la sensibilità ricettiva della filmografia a una specie di deriva iconocentrica, che ha cambiato del tutto il legame tra spettatore e immagine, e immagine e realtà, riducendo l’impegno narratologico della composizione filmografica a puro ozio passivo nella fruizione, che pure oggi è più gradita, delle serie televisive vendute su piattaforme come Netflix come pezze miste sulla piazza del mercato. Stiamo osservando che l’attenzione si è spostata dalla finzione narrativa alla narrazione recitativa, dove la centralità dell’azione mimetica viene surclassata da una specie di imitazione verbale, che altro non fa che togliere sempre più rilievo e significato all’attore. Così la figura del regista cui le odierne generazioni stanno abituandosi è prossima a quella di un burattinaio che acconcia l’andatura dei suoi pupazzi per intrattenere con storielle il suo pubblico che vuole solo ricevere, e mai dare, o fare.
La crisi del cinema contemporaneo è anche discesa da qui, dal momento in cui l’attore ha smesso di farsi spettatore del suo teatro, mentre lo spettatore ha smesso di farsi attore del suo spettacolo. Ma non è solo l’assenza di un piano finanziario e di investimento che tuteli e promuova l’arte in tutte le sue forme, a farla soffocare, quanto soprattutto la precaria ricerca di libertà.
Ricercare la libertà significa fare cinema politico, che non è l’equivalente di quanto avviene in larga parte del sistema cineasta attuale, cioè, chiudersi dentro schieramenti partitici come lobbies anti-ministeriali. Bensì aprirsi il più possibile alla pubblica discussione intellettuale attraverso il fatto d’arte. L’opera cinematografica deve tornare ad essere l’urlo del reale, lo scandaglio della materia umana, l’indagine della sfera morale e di quella esistenziale.
La proiezione delle pellicole deve continuare a instillare il dubbio di Kubrick, deve tornare all’interpretazione politica e sociale di Pasolini, ma deve anche continuare a proporre l’alternativa ideale di Nolan a un reale esplorato già nei suoi abissi. Il regista, per riprendere un verso di Sidonio Apollinare, senatore romano della tarda età imperiale, deve farsi censore della sua creazione. Deve riprendere la sua azione politica per reggere l’autonomia della sua opera davanti alle resistenze della casta definita sistema. L’autonomia del regista come autore è la garanzia del funzionamento di una parte importante della nostra democrazia.
Se tutto ciò però viene a mancare, viene ad essere discussa anche l’utilità e l’autorità del cinema, riducendo la settima arte a merce esposta sulle vetrine commerciali delle piattaforme televisive. Non dimentichiamoci che il cinema è nato per divertire e non per intrattenere. Se il paradigma del cinema fosse stato dall’inizio il merito e non il talento, non avremmo mai avuto Quarto Potere di Orson Wells né tantomeno Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore.
Se dunque il cinema fosse stato solo uno spettacolo del potere, imposto da un merito apodittico, il mito della meritocrazia avrebbe cancellato l’arte come sintagma della democrazia. Per salvare questa condizione imprescindibile per la natura dell’arte, dobbiamo fare in modo che il ciclo del primato abbia il suo riciclo nell’anonimato, facendo emergere nuove maschere dal palcoscenico, facendo emergere i talenti che sono all’uomo e lo saranno sempre, sconosciuti, così come ci insegna Fellini in Otto e Mezzo”.
di Redazione