Nel giardino persiano rifiorisce l’amore

mercoledì 25 giugno 2025


Mahin ha compiuto settant’anni, è vedova da trenta, non si è risposata e vive sola da quando la figlia si è trasferita all’estero con la famiglia. Un pranzo con le amiche scuote la routine. Incontra casualmente Faramaz, anche lui senza legami e amicizie. Mahin si fa coraggio e lo invita a casa. Una casa con un giardino dalle luci rotte, che l’uomo si offre di riparare. Si riaccende la vita: vino, cibo, musica, ricordi. Lei si mette un bell’abito e lui chiede di fare una doccia. Tutto in una sera con finale sorprendente.
Sarebbe una trama comune se non fosse che la vicenda si svolge nella Teheran teocratica degli ayatollah con la regia di Maryam Moghaddam e del suo compagno Behtash Sanaeeha, al loro secondo lavoro presentato alla Berlinale 2024, alla quale però i due registi-sceneggiatori non hanno potuto partecipare poiché gli sono stati ritirati i passaporti. Ma il film, Il mio giardino persiano, distribuito da Academy Two, ha camminato spedito arrivando, domenica 22 giugno, anche alla Casa del Cinema di Roma, dove si è svolta la rassegna S-cambiamo il mondo. Visioni di Pace. Il rispetto dell’altro, 8ª edizione organizzata dalla Onlus Dun per l’assistenza psicologica a migranti e rifugiati con il sostegno della Chiesa cattolica Fondazione Migrantes, oltre che Amnesty International, Eidos e il patrocinio del Comune di Roma e Regione Lazio.

Mahin indossa l’hijab, riordina la casa vuota, si trascina a fare la spesa, è appesantita, con la tessera di ex infermiera dell’esercito può pranzare nei ristoranti per reduci. Qui incontra un tassista, anche lui ex reduce, che parlando con uomini del tavolo accanto confessa “che lui non ha nessuno”. La donna lo segue e gli offre lo straordinario invito: a casa non si possono portare partner, non si può cantare, ballare, sono vietati abiti colorati e scollati, sono le “linee rosse” del regime che la settantenne infrange con un’esplosione di vitalità. Anche Faramaz è scosso, divorziato e ripudiato per mancata procreazione, non pensava di rincontrare una donna. Lui senza figli e lei con la figlia espatriata e assorbita dal consumismo globale, per cui le telefonate con la madre sono sempre più sporadiche, frettolose e ansiose causa lavoro e prole. E qui lo scenario si apre. Non è più solo Teheran e il regime che impone la morale, che ferma le ragazze coi capelli colorati e sciolti (“Fatti sentire, più tu accetti il loro potere, più loro ti schiacceranno”, dice Mahin alla giovane che strappa alle pattuglie), che costringe a una vita segreta tra le mura domestiche. La solitudine esistenziale non è solo Teheran, è New York, è Londra e sono le periferie del mondo, dove uomini e donne scivolano nell’emarginazione, nella segregazione e nell’abbandono. E il tema dell’amore non sono soltanto le fustigazioni fondamentaliste, ma l’erosione dei sentimenti e delle emozioni ovunque.

Le riprese de “Il mio giardino persiano” sono iniziate due settimane prima della morte di Masha Amini e si sono fermate qualche giorno per il dolore, come hanno raccontato i registi, per cui l’Iran è certamente il filo portante con “il giardino spento e riacceso” quale metafora del popolo iraniano. Tuttavia, oltre le intenzioni, l’opera assume una vera dimensione internazionale e accredita il cinema iraniano, che al recente Festival di Cannes è stato insignito con la Palma d’Oro per il thriller “Un semplice incidente” di Jafar Panahi, tra le novità cinematograficheEsmaeel Mehrabi, che interpreta Mahin, è di un neorealismo etnico straordinario e Lili Farhadpour, il tassista, ha le dolcezze di un Chaplin persiano. Così come la pellicola assume il risveglio romantico de “I ponti di Madison County” con le vibrazioni di Maryl Streep e Clint Eastwood. Un abito, una musica e un sogno sono in qualunque epoca, a qualunque latitudine e sotto ogni potere la rivoluzione. Una esplosione che riporta l’esistenza sulla rotta smarrita, sia nelle opulente e liberiste vite occidentali e sia sotto la morsa dei regimi in bilico. Il film iraniano ci riporta dove l’afflato si era interrotto, al 1966 quando con un budget ridottissimo e in tre settimane di lavorazione, Claude Lelouch vinse il Gran Prix a Cannes, poi l’anno successivo l’Oscar come miglior film straniero, con “Un uomo, una donna” interpretati da Jean Louis Trintignant e Anouk Aimée. Trame diverse, mondi opposti, finali distanti, ma un unico destino: l’amore e non la guerra. “Perché la pace non basta volerla ed enunciarla, bisogna fare ciascuno qualcosa di concreto” come ha esortato Barbara Massimilla, medico e presidente di Dun.


di Donatella Papi