“Ritorno a casa”: le belve domestiche

venerdì 9 maggio 2025


Ritorno a casa di Harold Pinter: ovvero le gioie familiari in versione dark lady. Al Teatro Argentina di Roma Massimo Popolizio firma la regia dello spettacolo omonimo, che andrà in scena fino al 25 maggio, riproponendo senza veli la realtà distopica di un’opera dissacrante, più propriamente Pinteresque, in cui il mito della famiglia unita è un atto criminale che si consuma a danno della componente solo apparentemente più fragile di un ensemble più simile a una “gang-band”, che a una Foto di gruppo con Signora di Heinrich Böll. Personaggi e interpreti (veramente tutti molto bravi, questi ultimi) ricostruiscono un quadro agghiacciante della società anglosassone dei primi anni Sessanta, in cui ogni pratica è ammessa, compresa quella incestuosa all’interno della quale sorprendentemente non c’è violenza, facendo parte del comportamento assolutamente naturale e accondiscendente di tutti i suoi membri. Ma c’è più di questo, per la verità, in un pinteriano quadro urticante dei rapporti devianti tra consanguinei stretti. E il discorso si fa largo, tempestoso e problematico in merito al ribaltamento del mito del patriarcato, dato che tutti i protagonisti sono uomini, tranne Ruth, la moglie di Teddy, il figlio maggiore di Max. La risultante, messa in brutale evidenza nell’ultima parte dello spettacolo, è l’ingestione e la fagocitazione vulvare dei bassi istinti animali di fratelli e padre, mentre Sam, lo zio “scapolo” e l’unico davvero buono, si colloca fra color che sono (sessualmente) sospesi come omosessuali latenti.

Lo scenario è una riproduzione fedele di quanto descritto nel copione di Pinter, in cui viene rappresentata una vecchia casa nella zona nord di Londra, con uno stanzone che occupa tutto il palcoscenico, mentre il muro, che una volta separava questa stanza dall’ingresso e che comprendeva anche una porta, è stato demolito. Ora c’è solo un’apertura ad “arco quadrato”, dietro la quale è sistemato l’ingresso, mentre nel fondo scena sinistro è collocata una scala bene in mostra, dalla quale scendono e salgono nei momenti topici i vari protagonisti. La “comune” (che si riferisce all’uscita di scena di un attore attraverso una porta), è collocata sul fondo scena nella parete di destra, dominata da un grande finestrone che dà sul cortile e far da tela trasparente all’entrata e all’uscita dei personaggi dalla casa e, quindi, dal palcoscenico. Poi, tavoli e sedie vari, poltrone sparse qua e là e un grande divano dormeuse sulla sinistra, sul quale incombe dall’alto un grande quadro inclinato verso il pavimento, mentre sull’étagère sottostante è appoggiato un combo (in sostituzione del grammofono dell’epoca) per l’ascolto di musica moderna. Una radiazione rosso pompeiano promana dalla carta da parati a grandi disegni neri verticali, con cui è tappezzata l’intera parete di fondo, scala compresa, saturando nella sua interezza irradiante il grande ambiente della rappresentazione. Agendo così percettivamente come una minaccia cromatica, incombente e onnipresente, che anticipa e accompagna l’atmosfera carica di violenza repressa e di bassi istinti primordiali, che discende fin verso l’avanscena, dove è steso un ampio nastro di moquette rosso-sangue.

Poco a poco, questa cifra stilistica sanguinolenta e cinica si appalesa attraverso le parole e i gesti del macellaio in pensione Max (un bravissimo Massimo Popolizio), padre di tre figli, di cui due scellerati che vivono nella sua stessa casa. Un uomo duro e senza freni inibitori, vissuto tra il sangue, la carne viva e le ossa frantumate degli animali squartati, lavorando giorno e notte per mantenere due famiglie, la sua e quella di origine, essendo la madre e i suoi fratelli invalidi, e non in grado di lavorare. Per di più, avendo sposato una donna altrettanto incapace, degenerata e infelice, si è visto costretto a crescere i suoi tre figli piccoli (da lui definiti bastardi, forse non a torto, vista la personalità della madre) come farebbe una vera e propria balia. Il primo dei tre ad apparire in scena è il secondogenito Lenny (Christian La Rosa), diminutivo di Leonardo, nome datogli dalla madre e con il quale non vuole essere chiamato. Nullafacente e prosseneta, Lenny, fanatico di balli moderni, è vestito alla moda punk e si rivolge a suo padre con la stessa aggressività e maleducazione di fondo di lui. Joey (Alberto Onofrietti), l’altro fratello minore, ospite nella stessa casa, è un pugile dilettante che vive di lavoretti precari. Scemo quanto basta per tutti i colpi subiti, non conosce altro che la legge della strada e del più forte, per cui non ha remore né scrupoli ad appropriarsi assieme al fratello di ragazze già in compagnia, isolandole con le minacce e la violenza dai loro accompagnatori, per poi stuprarle in tutta tranquillità in luoghi appartati e desolati.

Poi, c’è lo zio Sam (Paolo Musio), una sorta di cenerentolo della casa, addetto ai lavori di pulizia e al lavaggio delle stoviglie, succube del fratello che lo maltratta e lo umilia come si farebbe con un cane di casa, anche se Sam ha un lavoro di autista privato e contribuisce con il suo salario al mantenimento della famiglia alla quale è particolarmente affezionato. Poi, in tutto questo bel disastro e deserto antropologico si assiste al “ritorno a casa” di Teddy, il figlio maggiore, professore di filosofia, accompagnato dalla bellissima moglie Ruth, che vive con il marito in America e anche lei è inglese, essendo nata e vissuta a Londra. Per di più, la coppia ha tre figli piccoli, lasciati in custodia a parenti per un viaggio in Europa. Teddy, che l’ha condotta nella casa paterna per farla conoscere ai suoi familiari-orchi, si ritrova strada facendo ridotto sentimentalmente in cenere, incapace di difendere il suo amore. Ma alla fine, quando il professore abbandonerà Ruth al suo destino, tornando alla sua cattedra americana, saranno proprio i suoi parenti stretti degenerati a cadere nella trappola dell’orca, della quale diventeranno docili burattini dopo averne fatto la propria prostituta domestica. Del resto, questo è anche il giusto prezzo pagato da Teddy per la sua stupida cecità dato che, appena arrivato nella casa di Max, si rassegna a lasciare andare Ruth a passeggiare da sola nella notte fonda, all’evidente ricerca di rapporti occasionali, dei quali però appare disinteressarsi proprio lui, il marito devoto e fedele e, alla fine, autenticamente voyeurista.

(*) Le foto sono di Claudia Pajewski


di Mau. Bona.