“Crisi di nervi”: un Čechov in versione vaudeville

venerdì 2 maggio 2025


Tre atti unici per tre racconti esilaranti. Al Teatro Quirino di Roma va in scena fino all’11 maggio Crisi di nervi di Anton Čechov, per la regia di Peter Stein, che ne cura anche l’adattamento, coadiuvato da Carlo Bellamio. Un esperimento teatrale particolarmente ben riuscito questo vaudeville čechoviano, che gioca sul paradosso e sul ridicolo all’interno di un discorso basilare a carattere sociale tra nobili contadini di bassa levatura, in cui viene volutamente e sistematicamente capovolto il rapporto patriarcale, per dare un forte impulso anticipatorio, anche se paradossale, al ruolo matriarcale. Il primo tempo è un gioco sottile, intriso di violenza e passione amorosa, che ritrae una bella vedova (una brava Maddalena Crippa) votata all’auto-astinenza e all’auto-confinamento a vita nella nobile casa coniugale, in memoria del suo defunto marito. Lui, in vita, noto “coureur de joupon”, come si usa dire in francese, lingua-snob del notabilato medio-alto dell’epoca zarista, di qualcuno che corre dietro alle gentili fanciulle, all’insaputa (per modo di dire) di sua moglie che, invece lo sapeva benissimo e sopportava il tutto in silenzio per amore, pur essendo lei quella ricca e lui uno spiantato blasonato. Già, ma dice un bellissimo proverbio indiano (che forse il buon Čechov non conosceva) “Vuoi far ridere Dio? Allora, raccontagli i tuoi progetti”, per dire che “l’uomo propone e Dio dispone”, che è poi lo stesso concetto occidentalizzato.

Così, un bel giorno, in questo santuario sepolcrale e blindato, entra a forza un energumeno (Alessandro Sampaoli), anche lui membro del notabilato locale contadino, che pretende dall’affranta vedova di onorare le cambiali che il suo defunto marito aveva sottoscritto, in cambio di una fornitura di fieno. Il creditore, sopraffatto il povero servo anziano (Sergio Basile), si pianta letteralmente seduto nel grande salone dove la vedova inconsolabile ha insediato il suo lacrimatoio personale, pretendendo che la povera signora, non si bene come, provveda a saldare seduta stante il suo debito. Ovviamente, poiché nemmeno all’epoca si aveva tanto denaro in contante a casa, la pretesa di averlo entro la giornata (causa la scadenza del pagamento degli interessi bancari) non può avere seguito. Da questo confronto del tutto impari, lo svantaggio è però paradossalmente tutto dalla parte del giovane uomo, che si rivelerà un succube involontario della dominante tigre velata. Circostanza davvero curiosa quest’ultima, che darà origine a una serie di situazioni esilaranti, in cui è addirittura lei, la dolce dama astrattamente venerata dal povero malcapitato, a estrarre gli artigli sfidando a duello l’esterrefatto antagonista. Poiché i violenti (come accadrà anche nel terzo episodio), più o meno repressi, si attraggono fino all’irresistibile coup de foudre, lasciamo immaginare al lettore come andrà a finire.

Il problema dell’inversione del rapporto patriarcale, nel mito della parità dei sessi, avviene in grande stile nel secondo dei tre episodi, in cui un finto professore (Gianluigi Fogacci), governante tuttofare in un educandato femminile gestito da una moglie-cerbero, tiene una pseudo conferenza colta a un pubblico improvvisato. Così, pur senza mai apparire in scena, la figura della sua consorte diviene la vera protagonista occulta (essendo la pièce monologante), che lo umilia e lo maltratta e lo costringe, in particolare, a questa esibizione di conferenziere per cui il poveretto, a buon motivo, non conosce nemmeno l’abc, dovendo trattare il tema dei danni conseguenti all’abuso di tabacco, senza il supporto di una valida documentazione. Bella, tra l’altro, questa metafora molto attuale del pavoneggiarsi senza avere né meriti, né talento, solo perché qualcuno ti ha sospinto o sponsorizzato in prima linea. Ed è proprio la presenza ossessiva e pluricitata di lei, che ha il completo potere su di lui, ad aleggiare come un demone malevolo per tutta la durata della sconclusionata e scombussolata conferenza del suo sfortunato marito. E, ovviamente, quel pulpito improvvisato diventa per lui un pubblico sfogatoio in cui confessa la sua condizione di reietto, schiavo della propria moglie e delle, all’incirca, sue sette figlie. Bellissimo il paradosso di Čechov, per cui il riscatto del femmineo (che si vuole ideologicamente paritario) ricade, invece, nella classica configurazione del padre-padrone sostituendo semplicemente alle sue occorrenze quella di “madre”. Com’è fragile, in fondo, l’animo ripetitivo e asessuato della realtà umana!

Il terzo tempo, se possibile, è ancora più interessante, anche perché stavolta si vede accompagnato da posture paradossali, per cui l’isteria dei rapporti (sessuali) mancati gioca brutti scherzi, con grandissimo divertimento per il pubblico. Anche qui, la storia vede un lui (Alessandro Averone) nel ruolo perfettamente interpretato di introverso mentale e soggetto vagamente psicotico, costretto per sua scelta a confrontarsi con una lei (Emilia Scatigno) dall’apparenza remissiva, che intende chiedere in sposa al suo vicino di casa. Dove, però, dietro l’avvenenza apparente del femmineo, si cela un’anima luciferina soggiogata dalla grande fame sessuale che ossessiona entrambi, per cui l’aggressività di lei si concilia e si giustappone a quella di lui con grande, perversa perfezione sado-masochistica. L’unico “normale” è il padre (Sergio Basile, già umile servitore nella prima parte) della nobile contadinotta che, giustamente, non vede l’ora di disfarsi della propria figlia e del suo “intricatissimo” pretendente, in modo da farsi in solitario una sana bevuta e, forse, godendosi in futuro qualche bel nipotino. Complimenti a tutta la compagnia e alla regia: spettacolo imperdibile.


di Maurizio Bonanni