venerdì 18 aprile 2025
Streghe o prostitute? Già di per sé un’ambiguità che lascia affiorare i cattivi pensieri: ma quando si tratta delle due, per così dire, “qualità” coniugate assieme, allora di certo qualcosa di magicamente perverso sta per accadere. Dando così luogo a uno spettacolo confusamente brillante e a un bailamme di sicuro effetto. Del resto: chi dice donna, dice danno, ma anche dramma e sentimento a profusione. E qual è il segreto dello spettacolo teatrale Streghe da marciapiede di Francesco Silvestri, in scena al Teatro Vittoria di Roma fino a domani, per la regia di Stefano Amatucci? L’incomprensibilità apparente, è il suo segreto. Uno scorrere fitto fitto di dialoghi in un dialetto napoletano troppo stretto per fare comunicazione universale; quattro femmine scatenate che mettono volentieri a nudo gambe e lingue, motteggiandosi e insultandosi a vicenda, in cori perfettamente articolati da cabaret primo Novecento, in cui manca soltanto la quadriglia di prima fila del can-can e le gonne roteanti, per mettere in bella mostra i pizzi sensuali e provocanti: il tutto sostituito da popolari reggicalze e mise liberty-stile. Gli stessi dialoghi, sempre concitati e sovrapposti, costituiscono la base di una cacofonia che appare generata da sequenze pseudo casuali; con un background, cioè, di un algoritmo scenico e di un mosaico da riempire attraverso la decodificazione della gestualità delle quattro attrici e dell’unico (tri)attore in scena.
Ciò che, alla fine, si arriva a capire dietro queste nebbie fitte dell’impenetrabilità dialettale e del bric-à-brac di una zingaria che mette assieme monacielli, ispettori di polizia e vicini ignari, con torsi d’uomo racchiusi nello sgabuzzino, che perdono per strada gambe e braccia, scomposte e fratturate come cristalli, è un dramma colossale di un quartetto di donne. Loro che, per puro caso, fanno le prostitute da marciapiede, sono ossessionate da “X”, un giovane innominato (evocato solo a parole), un ibrido tra demone e angelo, ospite nella casa comune. In realtà, in scena non ci sono soltanto loro, le protagoniste, ma i rispettivi fantasmi, evocatori di vissuti drammatici, in cui l’alieno comune, che esse vedono come il loro ospite-martire e vittima, è solo il capro espiatorio, la non presenza che occorre fare a pezzi, uccidere, far rotolare da una scarpata, per tornare a nuova, impossibile vita.
Così, il monaciello di bianco vestito, con la candela appesa, appena intravedibile nell’oscurità fitta, è un generatore e un catalizzatore di ricordi che ha funzioni di forcipe, estraendo dal ventre dell’una, Alba (Luisa Amatucci), la più anziana, un morticino di una creatura nata e soppressa, per vergogna e miseria, e poi a seguire la metamorfosi a rovescio di tutte quelle altre. Gina (Antonella Prisco), detta Cenerentola, che nell’adolescenza ha subito gravi maltrattamenti domestici fuggendo di casa, e non trova di meglio che rivalersi per contrappasso su “X”, vessandolo e umiliandolo nelle più degradanti faccende di casa. Tuna (Miriam Candurro), milanese snob e affetta da zoppia marcata, che proietta la sua natura lesbica facendo ogni tipo di fantasie su “X” perché diventi un femminiello, per accompagnarla nelle sue scorribande mercenarie: perché lei, in fondo, è solo disperatamente alla ricerca d’affetto. Morena (Gina Amarante), la figura più patetica delle quattro, malata di cinesia, nasconde dietro le volute di un movimento incessante una violenza sessuale che risale al periodo dell’infanzia, mimata e articolata da gesti e parole che danno fuoco alla polveriera del risentimento, scatenando un’onda d’urto che disorienta lo spettatore.
Poi, c’è lui: l’Ispettore, che ruota come una lamina della giostra dei numeri cercando il valore verità di un omicidio-non omicidio e, naturalmente, di scoprire quale delle quattro donne arpie ne sia stata l’esecutrice materiale. E, ovviamente, siccome non lo è nessuna e lo sono contemporaneamente tutte (del resto, come si uccide un fantasma dai mille volti?), resta perennemente vittima e preso a zimbello dalla voracità verbale e dalle gesticolazioni delle esperte donne di vita. Il loro quartetto, ben oliato e perfettamente coordinato, amplifica le battute e i mottetti come il pedale di un pianoforte per allungare le note. Poi, siccome di comari sempre si tratta, anche se dall’alza-gonna facile, ne vengono fuori spassosi battibecchi, che raggiungono il culmine quando Tuna, per timore di essere compromessa nel delitto, decide di andarsene e Morena la ricatta sfacciatamente. Momenti da Grand Guignol attraversano tutto il corpo centrale della rappresentazione, quando per l’appunto, la “cosa-X” deve essere in qualche modo eliminata, come si farebbe con la spazzatura di casa, dato che giustamente perde pezzi essenziali, diventando creatura marziana sanguinolenta, che non si può più né portarsi a letto, né utilizzare per piacere e compagnia. Perderà la giustizia, ovviamente, che non troverà nessun(a) colpevole da condannare.
di Maurizio Bonanni