martedì 15 aprile 2025
Non aveva paura di prendere posizioni eterodosse. L’onestà e il coraggio intellettuale hanno segnato tutta la sua traiettoria di uomo pubblico.
Le convinzioni più profonde di ciascuno di noi prendono forma nei primi anni di vita. Gli anni a venire servono, se va bene, a metterle in bella copia. Vale anche per Mario Vargas Llosa, morto domenica 13 aprile a Lima, nel suo Perù. Il padre e la madre si erano lasciati poco dopo la sua nascita. Cresciuto con la famiglia materna, al ritorno del padre i due non si presero. Il genitore lo spedì in un collegio militare, esperienza dalla quale venne il suo primo grande romanzo, “La città e i cani”.
Dallo scontro col padre derivò un’antipatia viscerale di Vargas Llosa per ogni paternalismo e, dunque, per il potere politico, che inevitabilmente mira a sostituirsi ai nostri genitori. Al tema del potere ha dedicato alcuni dei suoi romanzi più importanti. Dopo una stagione in cui, come tutti gli intellettuali della sua generazione, aveva flirtato con un marxismo di maniera, Vargas Llosa divenne liberale: impressionato dall’intolleranza del regime cubano ma anche dal miracolo economico innescato dalla signora Thatcher, che sperimentò in prima persona, quando viveva in Inghilterra.
Nel 1987, il presidente peruviano Alan Garcia annunciò una serie di nazionalizzazioni, che miravano a portare sotto il controllo del governo il settore finanziario. Il grande scrittore, diventato famoso in Europa ma sempre “connesso” col suo Perù, le criticò aspramente. Ne venne un movimento politico, fra i dirigenti anche il figlio di Mario, Alvaro, e il giurista Enrique Ghersi, che avrebbe provato a portare Mario Vargas Llosa alla presidenza del Perù. In quegli anni, il romanziere aveva girato il suo Paese e aveva compreso che la povertà si poteva combattere solo stabilendo chiari diritti di proprietà e aprendo l’economia agli scambi, non con l’ennesimo piano. Ne scaturì una campagna entusiasmante, che lo portò al ballottaggio dove venne sconfitto da un candidato fino ad allora ignoto, Alberto Fujimori, sul quale i vecchi partiti fecero convergere i loro voti.
Erano gli anni in cui cadevano i regimi comunisti e in America Latina uno dei grandi scrittori del nostro tempo portava il famigerato “neoliberismo” nell’agone elettorale.
La sconfitta elettorale non scalfì il liberalismo di Vargas Llosa, che lo esercitò da intellettuale fra intellettuali, promuovendo eventi culturali, tenendo a battesimo la Fundacion Internacional Para la Libertad e raccontando i pensatori che lo avevano indotto a riscoprire il liberalismo in una serie di saggi. Non aveva paura di prendere posizioni eterodosse, anche rispetto ai compagni di strada politici, per esempio sul conflitto israelo-palestinese. L’onestà e il coraggio intellettuale hanno segnato tutta la sua traiettoria di uomo pubblico. La sua ultima iniziativa, in questo senso, fu un manifesto contro le spinte autoritarie durante la pandemia.
Per il nostro Istituto, è stato un grande amico: tenne una conferenza a Milano con il figlio Alvaro nel 2007 e poi ricevette il Premio Bruno Leoni nel 2014, quattro anni dopo il Premio Nobel.
Vargas Llosa è morto in Perù, dopo una vita romanzesca che lo aveva portato in giro per il mondo. Il suo ultimo romanzo, “Le dedico il mio silenzio”, parla della musica criolla. Sostenitore appassionato dalla globalizzazione, critico del nazionalismo, aveva un rapporto viscerale col Perù. Nessuna stridente contraddizione, ogni spirito autenticamente liberale “contiene moltitudini”.
di Istituto Bruno Leoni