Il “letteralismo”, l’Islam e la palestinizzazione dell’Occidente

mercoledì 26 marzo 2025


Seconda parte – Il “letteralismo”, il male e la mancanza di empatia

Nel Corano si trovano delle rappresentazioni antropomorfiche di Dio: per esempio, Dio è seduto sul Trono, ha un viso e delle mani. Per i mo’taziliti si tratta di metafore: la mano – ci spiega ancora Henry Corbin – “designa metaforicamente la potenza; il viso l’essenza; il fatto che Dio sia assiso in Trono è un’immagine metaforica del regno divino”. Al contrario di quanto pensano i mo’taziliti, per i “letteralisti” questi sono fenomeni reali concernenti Dio e devono essere considerati come tali. Su questo punto, Ash’ari è d’accordo con i "letteralisti" e ogni musulmano dovrebbe credere che Dio ha realmente le mani e il viso, ma senza “domandarsi come”. Per lui la fede può fare a meno della ragione e quindi non ha nemmeno bisogno di ricorrere a delle metafore per spiegare quanto si trova nei sacri testi islamici e che sia con essa in contrasto. Ragione e fede possono procedere appaiate, senza interferire una con l’altra, senza bisogno di alcuna mediazione.

Ma senza ricorrere all’uso di metafore e di altre figure retoriche anche il tentativo di sciogliere le contraddizioni che affiorano da una interpretazione letterale dei testi sacri non può avere successo. Se poi intendiamo rispettare anche la regola del “non cercare di capire”, allora qualsiasi comprensione di un testo non potrà che rivelarsi, da un lato, una rigida fonte dimplicazioni anche contraddittorie, e dunque anche capace di indurre comportamenti di qualsiasi tipo, e dall’altro, quando cioè potrebbe fornire indicazioni spiritualmente significative e compatibili con un’etica razionale, incapace di toccare l’anima e di persuadere, inefficace tanto sotto il profilo psicologico quanto sotto quello conoscitivo.

Può essere a questo riguardo interessante ricordare quanto Sigmund Freud sostiene in Analisi terminabile e interminabile, dove afferma che non si può avanzare di un passo nella comprensione di qualsiasi fenomeno tipico della vita psicologica, come per esempio il contenuto “manifesto” e “letterale” di un sogno, se non “speculando”, “teorizzando” e persino “fantasticando”. In effetti, nessun tipo di comprensione di un testo può fare a meno di ricorrere ad analogie e trasposizioni semantiche che vadano oltre la sua lettera, come chi conosce la difficile arte del tradurre sa bene. Senza saper giocare con le figure retoriche, ogni traduzione rischia infatti di rivelarsi piatta e priva di quelle risonanze di senso che potrebbero non far rimpiangere l’originale, precludendo così anche una reale comprensione del testo. Il "letteralismo", quindi, non costituisce solo l’opposto di un atteggiamento razionale, ma è anche il più acerrimo nemico di ogni riverbero emotivo ed empatico di un testo. E non solo di un testo: i suoi effetti deleteri si ripercuotono anche sulla capacità di un essere umano di comprenderne altri, di mettersi nei panni di altri, di ascoltare ciò che sentono altri.

Durante il bel film di Yves Simoneau sul processo di Norimberga, quando il protagonista si chiede cosa possa aver permesso tante crudeltà ed efferatezze da parte dei gerarchi nazisti, egli finisce poi con l’interrogarsi su quale sia più in generale l’origine del male e a un certo punto dice di aver finalmente compreso che si tratta proprio di una “mancanza di empatia”. Tale mancanza caratterizza in genere chi non è capace di una vera simbolizzazione del proprio vissuto, che resta così schiacciato sulla "lettera" della legge, di una "lettera" che non riesce però a sostituire la pienezza di un’esperienza propriamente simbolica. Il proprio mondo interiore, e dunque anche la propria fede, possono infatti accedere a un simile esperienza solo attraverso l’esercizio di una "parola piena", percorsa dalle sue risonanze "de-letteralizzate", e solo mediante quest’esercizio il soggetto può imparare a traslare i propri stati danimo sugli altri e a simulare quelli degli altri dentro di sé, così da provare empatia per loro.

Com’è possibile allora che nazisti e criminali assassini di ogni epoca, inclusa quella in corso, abbiano potuto compiere efferati delitti senza provare nulla che gli impedisse di compierli, d’immaginare cioè cosa le loro vittime stavano provando? Una risposta potrebbe essere la seguente: perché rispondevano a una propria etica a suo modo "letteralista", e cioè commisuravano il loro vissuto a una legge codificata in modo tale da escludere qualsiasi riferimento al dolore altrui e alla sua simulazione interiore. Cercando d’incarnare alla "lettera" le idee di "forza" e di "potenza" che contrassegnavano la loro fede nel nazismo e nel hrer, nonché una certa idea di purezza ariana, si condannavano così a rimanere sordi a qualsiasi rimostranza della propria coscienza, a qualsiasi stato d’animo che potesse insorgere simulando in sé ciò che le loro vittime potevano provare.

In virtù di un’analoga dinamica psicologica, i criminali che il 7 ottobre 2023 hanno massacrato, rapito, stuprato e torturato in nome di Allah cittadini israeliani cogliendoli di sorpresa mentre partecipavano a una festa o si trovavano nelle loro case, e i soldati russi hanno compiuto gesta simili verso i civili ucraini dopo il febbraio del 2022, dando prova di una mancanza di empatia che ha dei precedenti analoghi solo in coloro che poterono compiere gli efferati crimini nazisti. Certo, si potrebbe sostenere che chiunque si trovi a combattere una guerra debba per forza praticare una simile assenza di empatia, ma non sarebbe esatto: un conto è infatti torturare e massacrare qualcuno che è davanti a noi senza che ciò abbia qualche utilità per conseguire la vittoria, altra cosa uccidere per vincere una guerra e per evitare nel contempo di essere uccisi.

In una situazione simile a quella in cui hanno operato o continuano ad operare i criminali nazisti, russi e islamisti doveva invece trovarsi San Paolo quando perseguitava i cristiani, dato che rispondeva anche allora alla stessa dimensione letterale della "legge" da cui nasce il peccato, senza la quale non v’è peccato. Come poi evidenzierà infatti Jacques Lacan, in particolare nel suo commento alla Lettera ai romani, sarà proprio San Paolo a sostenere, dopo la sua illuminazione sulla via di Damasco, che è soltanto per la "legge" che è possibile peccare, perché senza le sue proibizioni non potrebbe sussistere una loro infrazione. Per peccare non ci si può astrarre dalla "legge" e si deve passare attraverso la sua interdizione, con la quale ci si può tuttavia anche identificare, arrivando a punire in suo nome e a poterlo fare con una spietatezza sorprendente e terribile.

Perché si possa andare oltre questo rapporto letterale con la "legge", perché questa possa farsi ispiratrice di empatia verso altri esseri umani fino al punto da trasformarsi in agape, è necessario che con la "legge" si sia prima instaurato un rapporto dialogico in grado di evidenziare le contraddizioni che sussistono tra la sua "lettera" e le proprie convinzioni razionali, fino ad avvertire le conseguenze di tali contraddizioni sul piano morale, esattamente come è avvenuto nella vita di molti santi e teologi che hanno sentito l’esigenza di dischiudere sinceramente la propria anima a Dio, o a illustri filosofi atei che hanno nondimeno saputo intraprendere un dialogo non meno sincero con la propria coscienza.

Una simile esperienza, se può sembrare eccessivamente appiattita sulla dimensione religiosa o su quella filosofica, è tuttavia molto simile a ciò che in ambito psicoanalitico è rappresentato dal transfert, e non è un caso che per alcuni grandi filosofi cristiani, come per esempio Søren Kierkegaard, si sia potuto parlare della sua "analisi con Dio". Insomma, perché la propria fede, così come la propria "analisi", non siano esperienze incapaci di trasformare e condurre verso un perfezionamento spirituale, per usare un’espressione particolarmente cara ai mistici di ogni religione, è necessario che con la "lettera" della “legge”, così come con la "lettera" di un testo sacro, si sia instaurato una relazionede-letteralizzante”.

Il lavoro interpretativo svolto sulla "lettera" di un testo, con tutti i dubbi più o meno felicemente risolubili da cui è contraddistinto, non costituisce infatti un aspetto marginale del suo significato, ma un suo riflesso essenziale proprio in quanto implica una continua auto-revisione, un dialogo critico col proprio vissuto alle prese con il testo, da cui potrà poi scaturire un’introiezione consapevole e articolata della "legge". Il rapporto che è possibile instaurare con essa ha in questo senso qualche somiglianza con quello che è possibile instaurare con l’inconscio, che può rivelarsi fecondo e capace di trasformare solo procedendo attraverso un’analoga "de-letteralizzazione". Come infatti Lacan ha evidenziato fin dalla metà del secolo scorso, l’inconscio utilizza una sua retorica e in questa non è possibile addentrarsi senza porsi in ascolto di ciò che va oltre la "lettera". Figure retoriche come la metafora e la metonimia, riconducibili in un’ottica lacaniana a ciò che nell’Interpretazione dei sogni Freud definiva condensazione e spostamento, giocano nell’inconscio un ruolo decisivo nel rivelare il desiderio che vi è celato.

Sempre grosso modo in quel periodo del secolo scorso, grazie a un articolo Max Black del 1954, alla metafora venivano poi riconosciute delle qualità cognitive, tanto da paragonare il suo funzionamento a quello di modelli scientifici. Il significato di un testo religioso o letterario non è quindi scorporabile dalle sue risonanze metaforiche. Anche da un punto di vista junghiano, le immagini che possono essere suggerite dalla sua lettura sono imprescindibili affinché esso possa assumere un significato capace di produrre un riverbero di senso nel soggetto, e il potere delle immagini, la loro capacità di trasformarsi e trasformare, è riconducibile alla loro valenza metaforica. Quando questa è bloccata, interdetta, ogni simbolo per Jung si svuota e “letteralizza”, fino a diventare, appunto, "lettera morta”. La religione, il mito, così come la letteratura, sono invece grandi esempi della tensione viva che sussiste in ogni testo tra la sua energia figurale e la sua "lettera". Questa tensione, sempre aperta, è in grado di alimentare il senso polifonico di ogni testo, storia o mito, e al tempo stesso di sviluppare le capacità empatiche del soggetto, che diviene ad ogni passo di quest’esercizio più capace di adottare il punto di vista dell’altro e di simulare dentro di sé il suo vissuto, come avviene spontaneamente durante la lettura di un romanzo o la visione di un film che sappia coinvolgerci.

Ma se per esercitare l’empatia è necessaria una sorta di simulazione interna alla propria coscienza di ciò che l'altro sta vivendo, per sviluppare questa capacità di simulare bisogna svincolare il proprio vissuto dal compulsivo desiderio di rispettare la "lettera della legge", dato che tale desiderio rende empaticamente ottusi. L’assenza dell’empatia potrebbe in questo senso essere spiegata con una sorta di sordità emotiva nell’uso stesso del linguaggio. Se infatti le parole usate per descrivere o immaginare la situazione in cui l'altro si trova non risuonano anche nel nostro vissuto, ovvero se formano semplicemente pensieri sordi (come li chiamava Gottfried Wilhelm Leibniz) esse non possono provocare alcuna reazione empatica. Questo tipo di pensieri sono infatti caratterizzati dal fatto di essere privi di qualsiasi capacità psicagogica sul soggetto: essi non sono empatici perché sono soltanto letterali, formulati uti psictacus, a pappagallo. La simbolizzazione che li caratterizza non riesce a produrre alcuna simulazione interiore del vissuto dell'altro, il che impedisce di provare empatia e sospinge in una condizione di alessitimia, ovvero in una condizione in cui si è stabilmente incapaci di provare emozioni.

Empatia e "letteralismo" possono quindi essere considerati come acerrimi nemici. Il "letteralismo" – e in particolare quello che si può avere verso dei testi sacri che orientano in modo pervasivo, assiduo e capillare tutta la propria vita – da un lato è refrattario a un confronto aperto con la propria ragione, dall’altro impedisce anche uno sviluppo armonico della propria capacità di provare empatia, con tutte le conseguenze che l’assenza di questa disposizione d’animo può avere in società complesse, ricche di tensioni e conflitti più o meno latenti o esplosivi tra diverse comunità religiose e politiche.

(*) Fine seconda parte

(**) Leggi qui la prima parte


di Gustavo Micheletti