venerdì 21 marzo 2025
Un filmaccio d’altri tempi. La lotta di classe esercitata attraverso l’antropofagia. Delicious, thriller firmato da Nele Mueller-Stöfen, visibile su Netflix dal 7 marzo, è un lungometraggio ammantato di buoni propositi che si esprime in un mero esercizio di stile carico di retorica e di soluzioni narrative forzate. Il cinema di genere, in questo caso l’orrore tensivo, è un pretesto narrativo per mettere in scena, con uno sguardo fin troppo compiaciuto, la società contemporanea. Ma l’analisi condotta dalla 57enne cineasta tedesca è palesemente didascalica. Per queste ragioni, Delicious non scandalizza e non sconcerta. In compenso, delude e annoia. Se l’intreccio richiama scopertamente il pluripremiato Parasite (2019) del sudcoreano Bong Joon-ho, la costruzione dei protagonisti omaggia maldestramente Teorema (1968) di Pier Paolo Pasolini. Ma Nele Mueller-Stöfen, nonostante provi a riecheggiare il cinema d’autore, cade nel più banale tranello della sospensione dell’incredulità. Il suo è un cinema di luoghi comuni caratterizzato da personaggi stereotipati privi di motivazioni coerenti. Il disgregamento familiare che vuole narrare attraverso una stucchevole suspense glaciale è facilmente pronosticabile sin dalle prime sequenze.
Delicious racconta la storia di una ricca famiglia tedesca, composta da John (un disorientato Fahri Yardim) ed Esther (una disillusa Valerie Pachner), marito e moglie, con i figli Alba (una puntuale Naila Schuberth) e Philipp (un evanescente Caspar Hoffmann). I quattro arrivano in una villa della Provenza, in Francia, per trascorrere l’estate. Una sera, dopo aver cenato in un lussuoso ristorante, John, in evidente stato di ebbrezza, si mette alla guida della sua auto e investe accidentalmente una ragazza andalusa, Teodora (una proterva Carla Díaz), ferendola a un braccio. Esther vuole evitare di portare la ragazza in ospedale e decide di ospitarla nella villa, per medicarle la ferita. Inizialmente, la donna risarcisce Teodora donandole 300 euro. Ma la ragazza, il giorno dopo si presenta davanti al cancello della villa, chiedendo l’assunzione come domestica. John ed Esther, pur turbati dall’insolita richiesta, non ravvisano alcun impedimento e la assumono. Naturalmente, la decisione si tradurrà in un errore fatale. Come nella più riconosciuta delle tradizioni del genere, nel gioco dei saperi lo spettatore è sempre un passo avanti rispetto ai personaggi. Ma, se questo meccanismo narrativo è solitamente utile ad accrescere la tensione di chi guarda, nel caso di specie, per insipienza della regista, si traduce nell’inevitabile ovvietà del racconto. Lo spettatore prevede ogni mossa. Per questi motivi, i colpi di scena sono azzerati. Salvo la svolta finale horror, veramente imbarazzante e gratuita, dominata dai cliché e dalle inevitabili e conseguenti contraddizioni. Soprattutto il personaggio volutamente sopra le righe di Teodora risulta involontariamente ridicolo, nei toni e nel linguaggio. La moderna Lolita è una tediosa giovane disfunzionale che non esercita alcun fascino perturbante. Un fatto è certo: quello che fa emergere Delicious è il ritratto puerile e scontato di un’alta borghesia stancamente prona a farsi circuire. Il gruppo di famiglia in un interno, dedito al quotidiano delirio di onnipotenza, delinea l’affresco di un universo inverosimile e colpevolmente caricaturale.
di Andrea Di Falco