mercoledì 12 febbraio 2025
“Sono pazzi questi romani!”. Soprattutto, quelli che non credono ai finti matti, come Elena la matta, anima libera del Ghetto di Roma in quel drammatico 16 ottobre 1943, quando le SS rastrellarono 1.259 persone, di cui 1.007 ebrei che furono instradati sui treni della morte verso Auschwitz, mentre gli altri vennero subito liberati perché “meticci o stranieri” (numeri citati nel rapporto che il tenente colonnello Herbert Kappler inviò al generale SS Karl Wolff). Così, la storia vera di Elena la matta, ricostruita da Gaetano Petraglia attraverso le ricerche di archivio e le testimonianze dei familiari, documentate nel suo libro La matta di Piazza Giudia, è raccontata in maniera oltremodo brillante ed emozionante nello spettacolo omonimo, in scena alla Sala Umberto di Roma fino al 16 febbraio, per la regia di Giancarlo Nicoletti e la magistrale interpretazione di Paola Minaccioni, con la drammaturgia di Elisabetta Fiorito. Un duo musicale accompagna la recitazione e i testi, con un accenno ad alcune canzoni dell’epoca, come la bellissima Le mantellate, intonata dalla protagonista. Il monologo è recitato quasi per intero nell’avanscena, in cui sono sparsi indumenti e oggetti che serviranno alla bravissima Minaccioni per ricreare ambientazioni e personaggi in scena. Donna libera, femminista della prima ora, paladina degli indifesi e degli oppressi in ogni occasione, Elena vive una situazione di disagio fin dall’infanzia, oppressa dalla povertà e dal suo rifiuto dell’oscurantismo e del clima repressivo e intollerante instaurato dal regime fascista.
C’è da dire che, all’epoca, la sola alternativa per i dissidenti di evitare pesanti condanne in carcere era il ricovero nel manicomio appena attrezzato di Santa Maria della Pietà, a Monte Mario, in cui Elena venne ricoverata la prima volta a soli quindici anni, per aver aggredito una donna che non voleva rispettare la fila. Motivo che l’aveva fatta sbroccare (“je partiva er chicchero”, nel romanesco di Minaccioni), così come accadrà altre volte inseguito, quando assisterà al pestaggio di un anziano da parte di tre squadristi, solo perché il poveretto aveva in tasca l’unico vero giornale libero e correttamente informato, L’Osservatore Romano. Il quotidiano della Santa Sede vantava all’epoca una tiratura giornaliera di 250mila copie, grazie all’immunità di cui godeva lo Stato vaticano concordatario. Un altro dei ricoveri citati e mimati fu quando la protagonista, sposa infelice con due figli piccoli, costretta ai lavori più umili per dar loro da vivere, a fronte di un marito ubriacone e violento, all’ennesima scenata per esfiltrarlo a forza di urla dal vino e dagli amici beoni, aggredita dal marito Elena si difende ferendolo alla gamba con un coltellino, cosa ce le procurerà vari mesi di internamento. Però, la pazzia è anche una sorta di alibi sapendo come giocarci su (il che, tra l’altro, denota un’intelligenza viva e brillante), simulando scene di isteria quando malmena i fascisti o dice cose inenarrabili contro il regime, che toglierà agli ebrei persino le povere licenze di commercio ambulante necessarie alla loro sussistenza.
All’epoca, per dissidenti e persone indesiderabili la seconda misura di “secondo grado” alternativa al carcere era il confino, al quale fu condannata anche Elena dopo l’ennesimo ricovero al Santa Maria. Distanziamento dalla sua famiglia che le costò due anni di patimenti, e inutili, estenuanti scontri con il muro di gomma dei funzionari di questura, per ottenere da loro il permesso di rivedere i suoi figli piccoli (concessole una sola volta!). Da esiliata, Elena ebbe come unica amica, ma solo per brevissimo tempo, una simpatica peripatetica, amante della truppa giovane, che si fingeva spagnola per battere la nutrita concorrenza. Dopo di che, il drammatico rientro in una Roma bombardata, passando per San Lorenzo per poi arrivare al ghetto e venire a sapere che. In cambio di 50 chili di oro, i responsabili della comunità si erano accordati con i nazisti di Kappler per impedire le deportazioni. La comune e drammaticamente infondata convinzione dei suoi confratelli era che il Papa (responsabile dal 1555 del loro confino, decretando la chiusura delle porte del Rione Sant’Angelo dal tramonto all’alba) li avrebbe protetti, non sapendo che in realtà i fascisti avevano trasmesso gli elenchi degli ebrei residenti ai nazisti, e che questi ultimi avessero ricevuto da Heinrich Himmler l’ordine perentorio di dare seguito anche per l’Italia alla Soluzione finale.
Venuta a sapere casualmente che i tedeschi, non rispettando i patti con la comunità, avrebbero agito la sera dello Shabat del 16 ottobre 1943, Elena fa di nuovo la pazza implorando tutti coloro che riesce a contattare di mettersi in salvo e di allontanarsi anzitempo. Come si poteva supporre dalla sua triste storia, non viene però creduta, e lo stesso collegio rabbinico, dopo averla ricevuta, l’aveva tranquillizzata sull’affidabilità dell’accordo con i tedeschi. L’unico successo di Elena, in quel frangente, è di mettere in salvo i suoi due figli presso un’amica fidata. Poi, vedendo deportare sorella e nipoti, decide di rispondere al grido di invocazione del più piccolo facendosi arrestare, dopo aver visto dall’alto le scene drammatiche del rastrellamento. Finirà come previsto, in un superaffollato vagone blindato, con i più piccoli costretti a respirare l’odore fetido degli escrementi, del sudore e della paura, con Elena che fino all’ultima momento rimane umana, consolando e abbracciando fino alla fine i suoi nipoti.
di Maurizio Bonanni