lunedì 3 febbraio 2025
Un viaggio filosofico nell’era delle immagini
Nel confronto quotidiano con la realtà, nessun dispositivo di registrazione – che sia una fotocamera, una telecamera o uno smartphone – può dirsi neutrale. Ogni obiettivo è uno sguardo che, posandosi sul mondo, lo trasforma inevitabilmente. Ma di fronte a questa constatazione, due domande si impongono con urgenza filosofica: chi è il vero osservatore della realtà? E soprattutto: quale realtà sopravvive quando ogni sguardo è per sua natura attivo e creativo? Il principio di indeterminazione formulato da Werner Heisenberg nel 1927 non fu solo una rivoluzione per la fisica quantistica, ma aprì un orizzonte teoretico di straordinaria potenza. La sua intuizione, espressa nel rigore del formalismo matematico, conteneva un’idea tanto semplice quanto vertiginosa: l’osservazione di un fenomeno altera il fenomeno stesso. L’atto del misurare, lungi dall’essere un gesto neutrale, diventa agente di alterazione. Non esiste dunque una realtà in sé, indipendente dallo sguardo che la scruta. Al contrario, ogni misurazione, ogni sguardo indagatore, ogni tentativo di fissare l’essere lo trasforma irrimediabilmente in altro.
Questa intuizione, nata nel campo della fisica, si rivela straordinariamente feconda se applicata alla nostra relazione con la realtà mediatica e storica contemporanea. È legittimo chiedersi se il reale, prima dell’avvento dell’occhio meccanico – dalla camera oscura alla fotografia digitale – fosse una realtà più autentica, autosufficiente, e se l’osservazione tecnologica ne abbia modificato l’essenza, proprio come accade alle particelle subatomiche sotto osservazione. Non si tratta, certamente, di una questione inedita. La riflessione sul rapporto tra realtà e rappresentazione attraversa come un filo rosso il pensiero del Novecento, da Walter Benjamin a Jean Baudrillard, da Guy Debord a Marshall McLuhan. Per non parlare della millenaria tradizione filosofica che, sin dal celebre frammento parmenideo sull’identità di pensiero ed essere, si è confrontata con questo nodo cruciale.
Se la fisica quantistica ha rivelato l’intrinseca incertezza della materia, il pensiero contemporaneo ha mostrato come anche la realtà sociale e politica sia, in larga misura, un costrutto dell’osservazione mediatica e digitale. Vi fu un’epoca in cui il mondo esisteva in sé. La storia si dipanava nella sua opacità e nel suo mistero, senza un occhio elettronico che la registrasse in tempo reale. Esistevano cronisti, narratori, memorie orali e scritte, ma la realtà manteneva una sua autonomia: il contadino non era contadino per un pubblico virtuale, il sovrano non governava per le telecamere, la battaglia non era un evento da trasmettere in streaming. L’avvento delle tecnologie di registrazione e riproduzione ha alterato irrimediabilmente questo rapporto. L’occhio tecnologico – nelle sue infinite declinazioni contemporanee – penetra nel tessuto del reale e lo trasforma in spettacolo. Come la particella quantistica che, sottoposta a misurazione, si comporta diversamente dalla sua presunta natura originaria, così la realtà, catturata dall’obiettivo, cessa di essere ciò che era: diventa consapevole del proprio essere osservata e, in quanto tale, si modifica.
Gli esempi storici sono illuminanti. L’assassinio di John Fitzgerald Kennedy nel 1963 non fu solo un evento storico: divenne un fenomeno mediatico. La sequenza filmata da Abraham Zapruder, con quel rallentatore insostenibile che mostra l’istante fatale, non è semplice documentazione di un omicidio, ma la trasfigurazione del fatto storico in icona visiva assoluta. Kennedy, morendo davanti all’obiettivo, trascende la sua morte individuale per diventare simbolo mediatico e quasi metafisico. L’11 settembre 2001 segna forse il primo evento della storia moderna vissuto simultaneamente come realtà e come rappresentazione. Miliardi di persone hanno assistito in diretta al crollo delle Torri gemelle, in una messa in scena tragica e surreale, dove l’evento sembrava già cinematografico prima ancora che la pellicola potesse metabolizzarlo. L’occhio elettronico non si è limitato a documentare: ha trasformato l’evento in esperienza collettiva, ridefinendo il confine stesso tra realtà e rappresentazione.
Jean Baudrillard, in Simulacres et Simulation, spinge questa riflessione alle sue estreme conseguenze: la nostra epoca ha superato la distinzione tra reale e rappresentazione. Non esiste più un mondo in sé, ma solo una perpetua riproduzione di immagini che sostituiscono il reale. La Guerra del Golfo, secondo Baudrillard, “non è mai avvenuta”, nel senso che è stata vissuta dall’umanità esclusivamente attraverso la mediazione degli schermi, con immagini selezionate, filtrate, trasformate in spettacolo digitale. L’ipotesi più inquietante è che i dispositivi di registrazione, anziché mostrare il mondo, lo costruiscano attivamente. Non siamo più nel paradigma in cui il giornalismo documenta gli eventi: viviamo in un’epoca in cui gli eventi vengono concepiti per essere documentati. Dalle campagne elettorali alle crisi internazionali, tutto avviene con una precisa consapevolezza della sua futura riproduzione mediatica, con un’attenzione maniacale all’inquadratura, alla regia, ai tempi della comunicazione digitale. Il reale, una volta osservato, cessa di essere puramente reale. Ritornando alla lezione di Heisenberg, comprendiamo che non esiste un mondo “puro” precedente alla sua osservazione tecnologica, così come non esiste una particella con posizione e velocità definite prima della misurazione. Ma questo non significa che il reale sia svanito: significa piuttosto che ogni realtà è co-creata dallo sguardo che la osserva.
Emerge allora la domanda più radicale: è ancora possibile, nell’era della surveillance society e dei social media, uno sguardo che non modifichi il mondo? O forse ogni nostro vedere, ogni nostra registrazione della realtà è inevitabilmente un’alterazione? Paradossalmente, forse l’unico reale autentico è quello che sfugge alla documentazione, che non viene mai filmato, fotografato, condiviso. Ma un simile reale è destinato a rimanere invisibile o è, al contrario, il visibile per eccellenza, l’unico veramente veduto al di là di ogni mediazione tecnologica?
di Claudio Amicantonio