mercoledì 29 gennaio 2025
Cosa può cercare il cuore nobile e stanco di una scrittrice? Forse null’altro che cuori altrettanto nobili, ma con le antenne ben pronte per captare la risonanza più limpida della sua anima. A questo in fondo servono gli amici e non a caso vorremmo che il loro ascolto e le loro parole ci accompagnassero ancora nella sera della vita. Marta Maria Pezzoli, detta Mattia, era una giovane studentessa universitaria che fu per un certo periodo amica di Anna Maria Ortese e che condivideva con lei la devozione per Catherine Mansfield. Timida e introversa, dopo gli studi universitari Mattia si orientò − come scrive il nipote Stefano Pezzoli nella breve nota biografica che chiude questo volume epistolare − “anziché verso l’insegnamento, verso l’appartato mondo della conservazione dei libri”.
Il libro in questione (Vera gioia è vestita di dolore. Lettere a Mattia, Adelphi editore, Milano, 2023) raccoglie lettere scritte dall’Ortese dal maggio del 1940 al Luglio 1943. Si tratta di lettere per lo più intime, che non recano grandi tracce di quel disgraziato periodo bellico, e dalle quali emerge una sorta di autoritratto spirituale della scrittrice. Seppur manifestando umori diversi, in alcune di esse l’Ortese accenna al desiderio di rivedere l’amica, come per esempio in questo passo: “Cara Mattia, desidero non so come riaprire le ali (se mai ne ho avute) e riprendere il volo verso l’Italia alta. Mi parrà un sogno ritrovare dei visi gentili, dei cuori pronti e nobili come il tuo.”
La visione del mondo che emerge da queste pagine non è carina, anzi, è cruda, onesta, in un certo modo spietata e sanguigna: “Ho grande diffidenza delle creature, − scrive l’Ortese in una di queste − ma so che a volte esse consolano. Credo fermamente che vivano su questa terra alcuni spiriti nobilissimi. Tutto il resto io disprezzo e odio. Mi sembra di essere incatenata. Quante parole violente, mi fanno dolere. So che prima di tutto dovrei vincere me stessa, far di me stessa una creatura buona. Ma Mattia, io chiedo delle risposte al mondo, non sono fatta per le solitudini – e in questi paesi nessuna creatura risponde. Ho con me i tuoi libri – t’invidio perché non sei qui. T’abbraccio”.
Sebbene non vi siano tracce particolari del conflitto in corso, l’atmosfera cupa di certi momenti pare quasi rivelarne l’alone, che si manifesta come una mancanza di voglia, come una certa stanchezza di scrivere, o di leggere, di compiere gesti abitualmente spontanei e ricorrenti: “Non ho più voglia di scrivere o leggere, mi sembra tempo gettato. Meglio stare nella sala vicina al fuoco, guardando le faville, e nulla o poco pensando”. Questa svogliatezza costituisce l’indizio di un dolore sedimentato, antico, profondo, quel dolore che accompagna la Ortese come una verità solerte e che le pare talora di poter bere persino con un certo piacere. I cortocircuiti dell’anima consentono infatti a volte di trovare consolazione, e persino soddisfazione, nel proprio dolore. Del resto, “la vita non va bevuta assoluta. Bisogna mescolarvi molta polvere e molto amaro, o lo splendore e la dolcezza di questa bevanda misteriosa ci ucciderebbero”.
Il periodo, anche dal punto di vista familiare ed economico, non è per la Ortese dei più semplici, e a Mattia ne scrive così, ricevendone un qualche ristoro: “Mi è infinitamente dolce dirti che, a un tratto, siamo mezzo perduti. Sì, questo fa molto piacere. Ci si sente a un tratto tutti soli”. In quei giorni poteva capitare che il grigio immoto del cielo le sembrasse intollerabile. Il suo cervello era “tremendamente stanco” e l’anima “molto ammalata, vicina a smarrirsi”. Si trattava di uno smarrimento venato da un’ipotetica colpa grave, dal sospetto che in fondo, alla base di tutto quel male, ci fosse “un terribile orgoglio”. Forse era quella la vera origine di quel disagio di vivere, di quel “livore selvaggio” che provava verso la vita che circuisce e avvolge ogni giorno chi sa prestarle attenzione, verso la “serenità e intima felicità altrui”.
Anche in uno stato d’animo così plumbeo e livido la vita può tuttavia sempre irrompere come una melodia nuova. Può essere proprio la stessa musica a ricordarcelo, come per esempio quando capita di assistere a un concerto. La Ortese racconta di aver assistito a una rappresentazione di Notte sul monte Calvo “in uno stato d’animo tra curiosità, ansia, dolore”, tanto che all’uscita un’amica le disse che sembrava stravolta. Ma lo era davvero, perché quella musica l’aveva fatta soffrire: “Tu capisci, Mattia, la musica, cioè lo spirito, nascendo come un vento da quegli strumenti, mi veniva incontro, su su fino al loggione, con inaudita violenza. E io che non capisco nulla di musica, la sentivo però come l’aria, stringermi, soffocarmi, torturarmi meravigliosamente”.
Cosa ci tiene lontani da questo vento? Potrebbe essere questa la domanda centrale intorno a cui il pensiero s’avvinghia ogni volta che cerca una spiegazione all’incapacità di provare gioia. Il responsabile sembra riconducibile a quanto Pascal aveva già individuato in modo perentorio, e cioè al fatto lapidario che l’io è odioso: “Certe volte – scrive l’Ortese all’amica - io penso alle ore trascorse in cure della mia odiosa persona e dico: ma perché, perché ho dovuto togliere questo momento all’attenzione, alla travolgente gioia di ascoltare e di guardare? In altri momenti io sono poi così banale, io mi sorveglio poco o, non so, sono come sorda: solo in qualche momento del giorno sento come ora ti scrivo. E invece, io vorrei essere continuamente vibrazione, colore, gioia di poesia”.
Anche le domande concernenti la morte rinviano allo stesso conflitto dell’io con l’attenzione necessaria ad assaporare la vita. Saremo, dopo la morte, “qualcosa di meglio o niente addirittura? Ecco il problema”. E se saremo ancora qualcosa, saremo anche capaci di nutrire qualche gioia o rimarremo anche dopo solo il fantasma di un io ostinato, attorniato da angeli o demoni che ne prolungano un’indecifrata e gratuita esistenza? L’arte di vivere come una mendicante pare all’Ortese l’unica possibile conquista per liberarsi anche da questa forma di prolungamento di sé, dove vivere come una mendicante significa vivere “delle briciole che cadono dalle mani di Armonia”.
Ma come fare a dimenticarsi dello scoglio che ottunde questa possibilità estrema? Come sbarazzarsi dell’egotismo fatale che ogni spiraglio di gioia soffoca sul nascere? Forse “amando un uomo e dei figli?”, chiede Anna in un’altra lettera a Mattia. Ma la sua propria risposta anticipa quella dell’amica ed è pronta quanto disillusa, perché l’Ortese sa di essere “un albero che vuole mettere in cielo le sue radici” e comprende fin troppo bene che qualsiasi altro tipo di radicamento terreno non la disporrebbe a mendicare umilmente quelle briciole d’armonia.
Il suo destino è un altro, e lo condivide con tutti i più grandi scrittori, poeti e pensatori. Esso consiste nell’imparare a lavorare sul dolore, perché “è soprattutto sul dolore che bisogna lavorare per farne dolcezza. Ottenere qualche lume dalla gioia è cosa troppo facile”. Ma per lavorare sul dolore bisogna saper sempre ritornare a se stessi come alla compagnia più cara. Anche per chi, come la Ortese, ama il mondo con una specie “di avidità e disprezzo insieme”, amare la vita può consistere solo nell’accettare il moto del proprio mare, perché “questa vita è mare. Ora siamo in cima alle onde, ora siamo giù in basso, quanto mai in basso. Ma risaliremo, velocemente. Tu, ciò che devi fare di buono, di utile nella vita, − suggerisce la Ortese all’amica − la compagnia che ti devi procurare, necessariamente è questa: una te stessa attenta, libera, gentile. Sempre, in ogni momento, tu devi poter tornare a te stessa come alla compagnia più cara che ti sia dato immaginare. Coltiva te stessa: non ti parlo della mente, non del cuore: ti parlo della parte più segreta, la parte immortale di te. Sempre attenta, sempre umile, sempre coraggiosa di fronte a te stessa. Fa’ che vi sia in te un bel giardino, sospeso su un abisso, dalle cui terrazze si ascolti l’urlo del mare e si seguano le apparizioni della luna e del sole”.
In un’altra lettera, dopo aver raccontato a Mattia, con un tono un po’ sconfortato, che qualcosa le impedisce ancora di scrivere, che le dice di non farlo per non toccare le passioni, d’improvviso osserva: “Eppure ci sono cose azzurre, sante, delicate in questo mondo. Ma per lo più si tratta di cose sparite”. Ma se c’è un modo per ritrovarle, queste cose sparite, per farle riaffiorare, questo consiste nel lavorare sul dolore. Anche per riuscire ad amare è necessario farlo e per questo lei può amare solo chi le vuol bene per la sua disperazione. Così, infatti, confessa ancora alla giovane amica: “Io amo chi mi vuol bene per la mia disperazione – quello sento fratello o sorella – quello amo. Spero che sempre, fino alla fine, Iddio mi faccia conoscere la santa disperazione, che porge alle creature il bicchiere d’ebbrezza e apre loro gli occhi sul mare della realtà. Vera gioia è vestita di dolore. Vero dolore, è vestito di gioia. Sentire, sentire, sempre più sentire. Io non desidero altro”.
Si potrebbe quasi dire che gioia e dolore siano inclini, condividendo lo stesso destino, a scambiarsi spesso d’abito e che tendano a farlo nei momenti meno prevedibili, fino a produrre un chiasmo finale, una sintesi e una riconciliazione nella quieta attesa del proprio opposto. Così, per esempio, in una delle ultime lettere, verso la fine del libro, l’Ortese racconta all’amica che aprendo la finestra dopo una notte di vento e di pioggia aveva scorto l’ombra di un albero che si proiettava contro il muro di una povera casa muta e che guardando quell’ombra oscillare, non avvertendo più la necessità delle parole, di definire l’abito di ciò che provava, si era lasciata scivolare in silenzio nell’attesa quieta della primavera e della bontà di Dio.
Anche l’attesa della bontà di Dio, così come quella di una nuova primavera, può dunque essere un modo essenziale per chiudere il cerchio della vita, dove la vera gioia è vestita di dolore e dove l’attesa può essere una forma di nostalgia. Non a caso, alla fine del libro compare la nostalgia di un caro balocco dell’infanzia, tenero sedimento di gioie e dolori, cui l’Ortese dedica una poesia. Si tratta di una poesia semplice, forse comprensibile anche per un bambino, ma solo per quello che si può essere nella sera della vita. E quel bambino, anzi, quella bambina, chiede agli altri, a tutti gli altri, di mettere quel balocco sulla sua tomba, ma in modo che solo chi ne è degno possa guardarlo. Perché lui aveva assistito al primo grande tremore di quella bambina, che lo aveva raccolto nelle sue tenere mani; perché aveva gioito per lei, guardandola spaurito; perché quando la domenica lei piangeva pensando al suo amore, che a passeggio con un’altra ragazza l’aveva già dimenticata, la testina fredda del suo balocco diventava molle di lacrime e perché con i suoi occhi tondi di vetro vedeva il suo smarrimento e con le orecchie di stoffa sentiva tutto il suo dolore, e forse anche tutto quello che germinava allora e incessantemente germina ancora su questo strano globo.
(*) Anna Maria Ortese, Vera gioia è vestita di dolore. Lettere a Mattia, Adelphi editore, Milano, 2023, 160 pagine, 11,20 euro.
di Gustavo Micheletti