A Complete Unknown. Bob Dylan, questo sconosciuto

martedì 21 gennaio 2025


Per chi suona la campana? Nei roventi anni 60, dall’Isola che non c’è emerge come un crotalo nel deserto un Peter Pan con chitarra e stivali, che scioglie tutte le campane e come un Hemingway del pentagramma chiama milioni di giovani fuori dalle chiese, dai partiti e dai movimenti, per fare corpo unico con l’anima folk americana. Quest’ultima, opportunamente rivoluzionata perché le persone si ritrovino libere alla luce del sole, negli immensi spazi aperti di un’America disperatamente alla ricerca di se stessa. Il prodigioso cambiamento ha il nome di una coppia di cantautori folk, Bob Dylan-Joan Baez, così come raccontato in un biopic (quasi esclusivamente incentrato sulle complesse personalità dei due artisti epocali) dal titolo “A Complete Unknown”, in uscita nelle sale italiane il 23 gennaio, per la regia di James Mangold. Tra gli attori protagonisti si citano Timothée Chalamet (Bob Dylan), Monica Barbaro (Joan Baez), Elle Fanning (Sylvie Russo), Edward Norton (Pete Seeger) e un bravissimo Scoot McNairy (Woody Guthrie). Se fosse stato un film francese lo si sarebbe potuto definire “intimista-sciovinista”, nel senso che da “Complete Unknown” scompare letteralmente il fenomeno mondiale Dylan-Baez, preso in trappola in un vissuto artistico-affettivo, intimo e conflittuale, in base a una visione clanistica, chiusa su di un ristretto gruppo di musicisti, sulle loro diatribe, invidie, gelosie, performance al chiuso e all’aperto. Tra di loro Dylan si atteggia un po’ troppo a poeta maledetto, in preda a umori incontrollabili, perennemente sballato e tabagista, che preferisce far parlare le corde della chitarra anche nei momenti più intimi della convivenza con le sue donne. Nulla, tranne qualche drammatica cronaca televisiva dell’epoca sulla crisi dei missili a Cuba e sull’assassinio di John Kennedy, riverbera lo spazio dell’immaginario che la produzione artistica del più famoso duo folk del mondo ha prodotto fuori e dentro l’America.

La genialità e l’effetto sorpresa del primo Dylan sul pianeta del folk sono invece perfettamente tratteggiati nel suo incontro con i due mostri sacri della canzone popolare americana degli anni  40/50, Woody Guthrie e Pete Seeger, in cui il primo, alcolista grave, autore della bellissima canzone This Land Is Your Land e che negli anni della Seconda Guerra aveva scritto sulla sua chitarra “This machine kills fascists”, è ritratto nel letto di un ospedale, la faccia contorta da smorfie continue, le braccia penzolanti, le mani che si agitano senza un attimo di sosta, l’impossibilità a stare fermo di tutto il corpo. Un burattino impazzito, affetto da una gravissima malattia, nota come Corèa di Huntington (ereditata da sua madre). Dylan ricorderà per tutta la vita quell’incontro, citato nel suo primo Lp del 1961, in cui Bob evidenziava nelle note di copertina la sua visita a Woody, ricoverato presso il Greystone Park Hospital, nel New Jersey. A quell’omaggio Dylan farà sempre riferimento quale credenziale “di autenticità” che gli era stata riconosciuta dal “mostro sacro” del folk revival americano, che stava lentamente morendo e che, nel film, gli passa simbolicamente il testimone regalandogli la sua armonica a bocca. La stessa che, successivamente e al culmine del suo successo, Dylan restituirà cinicamente a Guthrie per simboleggiare la sua totale rottura dalla corrente tradizionale folk, dopo la rivoluzionaria esibizione nel 1965 nel tempio della musica popolare di Newport. In quell’occasione, Dylan si presentò, contestatissimo dal suo pubblico, con una banda Rock (The Hawks) che si esibiva a tutto decibel (interessante, in proposito, il pathos ambientale ricostruito da Mangold) con assordanti chitarre elettriche, cosa che fece dire alla critica dell’epoca “Dylan go electric”!

Un biopic intimistico, quindi, che riserva molto spazio al rapporto sentimentale (per molti aspetti un’invenzione scenica) tra Sylvie, Bob e Joan, con Dylan continuamente messo alle corde dalla sua storia tormentata con la Baez, in cui i sentimenti controversi e reciproci di odio-amore tra i due più famosi folk singer di tutti i tempi oscurano il reciproco arricchimento artistico, iniziato quando una Baez già famosa si dimostra (interessatamente?) generosa, incidendo le prime canzoni di Bob. Il film delinea il carattere anarchico del personaggio Dylan, ma tralascia per amore dell’autobiografia il ruolo fondamentale che la sua musica ha avuto nel mondo per le generazioni degli anni Sessanta e seguenti (vedi guerra in Vietnam), i così detti Baby-boomers. Il suo contributo unico e irripetibile, infatti, è di aver letteralmente cambiato i paradigmi artistici e musicali del suo tempo, per quanto riguarda la cultura politica giovanile, unendo tra di loro interi popoli. Fenomeno quest’ultimo che ha fatto della figura di Dylan una sorta di profeta, i cui versi profondi e originali (molte canzoni sono efficacemente riprodotte nel film, nel corso delle esibizioni in pubblico di Bob) danno voce ai movimenti politico-sociali negli anni ’60. Al centro delle sue composizioni vi fu sempre l’analisi di un mondo malato, e l’invito costante a creare una nuova realtà interiore ed esteriore attraverso la musica stessa.

La retorica delle canzoni di Dylan, in pratica, può essere definita come “empatethic resonance”, per la creazione di un forte legame gruppale, venendo condivisa da molti milioni di giovani degli anni 60. La sua musica, cioè, servì a produrre un reale cambiamento sociale e comportamentale, creando una forte coesione e auto-identificazione dell’identità di gruppo, soprattutto a sinistra. Con “Blowin’ In The Wind” Dylan dà il primo colpo di manovella al folk “progressista”, in cui vengono esaltati valori come il rifiuto della guerra, la pace e i diritti universali di cittadinanza. La lirica di Dylan, in altri termini, sfida la sua audience mondiale a decidere la forma di società che dovrà attuare l’uguaglianza razziale, la pace, il disarmo e creare un mondo dove prevalga la dignità umana. Discorsi da leader mondiale, come si vede, per cui parafrasando Edoardo Bennato: “Non sono solo canzonette”, caro Mangold!


di Maurizio Bonanni