venerdì 10 gennaio 2025
Ma chi è “Bahamuth”, secondo il duo di registi-autori, Antonio Rezza e Flavia Mastrella? Quello che sta sotto a tutti gli altri colossi immaginari per reggere il nostro simbolico mondo-universo, al cui interno si svolgono le umane cose, con il cielo stellato sovrastante e un mare infinitamente profondo sottostante. I due trickster (folletti mitologici dispettosi) Rezza/Mastrella ritornano al Teatro Vascello di Roma con due spettacoli imperdibili e profondamente attuali, di cui il primo Bahamuth va in scena fino al 12 gennaio. Come definire questa versione personalizzata del Teatro dell’Assurdo di Antonin Artaud, se non propriamente “rezziana”, per non essere in fondo né una cosa (assurda), né l’altra (normale). Se si parte dal non-linguaggio, dai gesti isterici e dai ritmi/aritmati con cui Rezza offre allo sconcertato spettatore la sua incoerente ma coerentissima interpretazione della scena teatrale, allora potremmo dire che, come accade in Paul Valéry, il suo testo/non testo deriva dalle continue cancellature. Nel senso che il linguaggio coerente è una singolarità (esattamente così) che affiora quasi causalmente dal mare magnum caotico del suo particolarissimo non-linguaggio, fatto di gesti quasi-isterici e di continui suoni paragutturali ossessivamente ripetuti. Così, da questa confusa non-prosa e dal relativo non-testo, affiorano all’improvviso nomi come “Porfirio” e la “moglie di Porfirio”, del tutto fuori luogo nella parascena della rappresentazione in atto. Ma se qualcuno pensa a un testo di pura follia si sbaglia: Porfirio è il prototipo di padrone spietato iperconcettualizzato, che fa strage dei dipendenti operai che osano scioperare e punisce con lo stupro di gruppo le scioperanti. Facile a questo punto tirare le conseguenze.
La stessa preparazione ipersonica (tutto è gridato e continuamente concitante nella rappresentazione trezzian-mastrelliana) delle scene è affidata sistematicamente al non-linguaggio, sia in termini verbali che gestuali, in cui la cifra della frenesia e del moto perpetuo non hanno nulla a che vedere, all’apparenza, con quanto viene annunciato. Sia che si tratti della descrizione della camera d’albergo, le cui condizioni di affitto e di postura dei soggetti ospiti sono sistematicamente surreali; o del finto paralitico immobilizzato alla colonna, che tratta da despota i suoi due badanti bianconeri. Nel mare magnum di questo integrale non-sense, la folgorante, episodica apparizione del “sense” stesso costituisce l’epifenomeno che obbliga al riso, al gusto retro-amaro di un’ironia spiazzante e tagliente come una lama diamantata. Ed è proprio quest’ultima a tagliare a blocchi la roccia dell’indifferenza e del fastidio causato dall’indotta, sistematica incomprensione dei gesti e dei suoni fuori contesto. Come quello di un braccio nudo rezziano, freneticamente oscillante, che sporge da dietro la quinta di sinistra, per rimproverare aspramente e ciclicamente un personaggio un attimo prima presente fisicamente sulla scena. Un gioco prepotente di buio e luci permette poi al trickster, fattosi nano per l’occasione, di apparire in punti diversi e imprevedibili sul palcoscenico, in un dialogo strambo e permanente con un pubblico ilare ed esterrefatto, che non sa darsi conto di quelle sue strane mosse.
Ma anche la rappresentazione degli indiani d’America, tipo “Wounded-Knee” alla Generale Custer, è tutta a-folkloristica, martellata com’è sull’incudine del richiamo tribale di guerra, lancinante e ininterrotto. Che, però, si interrompe in pause singolari in corretto idioma italiano di chi, privato prima della tenda e poi del sacro suolo natio, si chiede sorpreso che cosa gli sta accadendo tutt’intorno, per restare infine con “il solo scalpo”. Ovviamente, per chi conosce Rezza e le sue pezze, il suo peculiare linguaggio teatrale nasce dalla non-vestizione dei diversi personaggi, che appaiono, a sorpresa, letteralmente imbacuccati nelle loro espressioni isteriche in falsetto, dove i volti sono ritratti tridimensionali smorfianti che tracimano da buchi ricavati all’interno di larghi nastri di stoffa multicolori, appesi a sottili telai in metallo. Ad eccezione una tantum di vestiti femminili seicenteschi, in cui una donna visibilmente incinta di due gemelli si fa fantasie sfrenate sul loro sesso, mettendo così in pessima luce il potere e le sue membra corrotte: sottosegretari, cardinali o prostitute che siano.
Insomma, uno spettacolo per tutti, grandi e piccini, purché li si prevenga che in scena non c’è mai un attore, ma una serie illimitata di piccole follie e folletti vari.
di Maurizio Bonanni