venerdì 29 novembre 2024
Un anno prima della sua morte, avvenuta il 14 giugno del 1920 a Monaco di Baviera, Max Weber tenne in quella stessa città una conferenza divenuta poi famosa. Tale conferenza s’intitolava la Politica come professione (Beruf, che dal tedesco si può tradurre sia con il termine “professione” sia con “vocazione”) e vi si affrontava il tema, classico e sempre cruciale, dei rapporti fra etica e politica. Per spiegare questi rapporti Weber ricorre alla distinzione fra etica della convinzione ed etica della responsabilità. L’etica della convinzione, o dei principi, (Gesinnungsethik) è un’etica assoluta, di chi opera solo seguendo principi ritenuti giusti in sé, indipendentemente dalle loro conseguenze. In base questo tipo di etica un certo principio dev’essere seguito a qualsiasi costo: “Avvenga quel che avverrà, io devo comportarmi così”. Invece, l’etica della responsabilità (Verantwortungsethik) è più pertinente alla politica e tiene conto delle presumibili conseguenze delle scelte e dei comportamenti che l’individuo ed il suo gruppo di appartenenza mettono in atto. Le due etiche non sono però antitetiche; anzi, secondo Weber “si completano a vicenda, e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la “vocazione per la politica”.
Il loro rapporto non potrà tuttavia essere esente da tensioni e conflitti ed è destinato a produrre contraddizioni anche laceranti. Ogni agire orientato in senso etico può essere infatti ricondotto a queste due diverse prospettive e, sebbene l’etica della convinzione non significhi una mancanza di responsabilità e un’etica della responsabilità non significhi che non si abbiano delle convenzioni, l’adottare l’una piuttosto dell’altra può avere conseguenze radicalmente diverse, quando non opposte. Così, per esempio, un cattolico può agire in base a delle sue convinzioni quando fa ciò che ritiene giusto seguendo i principi della propria fede anche senza tenere in particolare considerazione eventuali implicazioni e controindicazioni del proprio agire, affidandosi in questo a Dio: per esempio, potrà condannare l’uso di certi anticoncezionali, o ritenere comunque l’aborto un crimine, indipendentemente da considerazioni che potrebbero tener conto sia dei diritti delle donne sia di quelli del nascituro, non riconoscendone alcuno più rilevante della sua stessa vita.
Oppure, per citare un esempio fatto proprio da Weber, a un sindacalista convinto di agire in base all’etica della convinzione “voi potrete mostrare in modo assai persuasivo che in conseguenza del suo agire aumenteranno le possibilità della reazione, crescerà l’oppressione della sua classe, verrà rallentata la sua ascesa: ciò non farà su di lui alcuna impressione. Se le conseguenze di un’azione derivante da un puro principio sono cattive, a suo giudizio ne è responsabile non colui che agisce, bensì il mondo, la stupidità di altri uomini, o la volontà del dio che li ha creati tali”. Colui che agisce secondo l’etica della responsabilità tiene conto dei difetti che sono propri della media degli uomini: egli non dà per scontata la loro bontà e perfezione e “non si sente capace di attribuire ad altri le conseguenze del suo proprio agire, per lo meno fin là dove poteva prevederle. Egli dirà: queste conseguenze saranno attribuite al mio operato”; viceversa, colui che agisce secondo l’etica della convinzione “si sente “responsabile” soltanto del fatto che la fiamma del puro principio – per esempio la fiamma della protesta conto l’ingiustizia dell’ordinamento sociale – non si spenga.
Ravvivarla continuamente è lo scopo delle sue azioni completamente irrazionali dal punto di vista del possibile risultato, le quali possono e devono avere soltanto un valore esemplare”. In sintesi, mentre chi agisce in base all’etica della convinzione non tollera l’irrazionalità etica del mondo, chi agisce in base all’etica della responsabilità con tale irrazionalità si misura cercando di limitarne realisticamente gli effetti negativi. Se il primo antepone il rispetto di un principio della cui validità è convinto a qualsiasi tipo di conseguenza, il secondo, anche quando condivide gli stessi principi del primo, tende a commisurarne l’attuazione alle sue conseguenze, dato che queste potrebbero entrare in conflitto sia con il rispetto di altri principi sia con quello dello stesso principio che s’intende rispettare, ma in tempi successivi. Quest’ultimo caso è particolarmente interessante, oltre che attuale. A volte, infatti, le due etiche risultano contrastanti semplicemente perché si tende a rispettare un principio ora, nel tempo presente, o in uno immediatamente successivo a quello presente, piuttosto che tener conto delle conseguenze della nostra scelta in tempi successivi anche relativamente ravvicinati.
Ad esempio, sicuramente sia Neville Chamberlain sia Winston Churchill avevano a cuore la vita dei cittadini del Regno Unito ed entrambi consideravano un principio valido il cercare di preservarla, ma mentre con la politica di appeasement il primo cercò di tutelarla nell’immediato, evitando il conflitto con la Germania grazie agli Accordi di Monaco nel 1938, il secondo ritenne, quasi due anni dopo, che qualsiasi ulteriore politica di appeasement avrebbe solo rafforzato il dominio nazista sull’Europa, mettendo ancora più a rischio la vita e la libertà dei suoi cittadini. Le due etiche entrano quindi in conflitto per due diverse ragioni: rispetto al principio condiviso per cui è giusto ridurre più possibile il numero dei morti tra i propri concittadini; e rispetto all’altro, forse non altrettanto condiviso, concernente l’importanza da attribuire alla libertà e all’indipendenza del proprio Paese di fronte all’aggressione nazista in Europa. Sotto entrambi questi due profili, se Chamberlain sembra seguire, nel 1938 a Monaco, l’etica della convinzione, tanto che fu acclamato come un salvatore della pace fin dal suo ritorno a Londra (un destino analogo toccò a Édouard Daladier a Parigi e a Benito Mussolini), Churchill preferì seguire invece l’etica della responsabilità, perché fin dal maggio del 1940 ebbe ben chiaro che il popolo britannico non si sarebbe potuto sottrarre al destino di sangue, fatica, lacrime e sudore che la storia gli aveva assegnato lasciandolo per quasi due anni affrontare da solo la macchina bellica nazista. La linea politica di Churchill non fu tuttavia esente da dubbi ed esitazioni, del resto inevitabili in quella circostanza storica.
Secondo Anthony McCarten, – l’autore de L’ora più buia, il libro da cui poi fu tratto l’omonimo film diretto da Joe Wright nel 2017 – nel maggio del 1940 molti in Inghilterra spingevano per la pace e anche Churchill arrivò a prendere in seria considerazione l’ipotesi di una pace separata con Adolf Hitler, che si sarebbe potuta ottenere, secondo il suo ministro degli esteri Edward Frederick Lindley Wood, nominato poi primo conte di Halifax, attraverso la mediazione di Mussolini. Seppur dubitando dell’utilità di una collaborazione con l’Italia, Churchill arrivò a dare disposizione ad Halifax, che era pubblicamente favorevole a continuare la politica di appeasement di Chamberlain, di sondare questa possibilità. Ma dai verbali del Gabinetto di guerra emerge pure che Halifax fece mettere agli atti il caso seguente: se Hitler avesse voluto proporre delle condizioni di pace alla Francia e all’Inghilterra, il primo ministro sarebbe stato disposto a discuterle? Si trattava, a ben vedere, di una questione cruciale, che è utile a porre in evidenza l’alternativa, che anche in quella circostanza si pose, tra etica della convinzione ed etica della responsabilità, alternativa che emerge in modo chiaro dal seguente dialogo immaginario proposto da McCarten per riassumere il dilemma che percorreva il Gabinetto di guerra che si teneva a Londra in quel periodo, nei giorni in cui l’Operazione Dynamo iniziava a dare i suoi frutti consentendo il rientro in patria di circa 330mila soldati inglesi.
In base al resoconto, riassuntivo e imaginario, ma non per questo meno pertinente, di Antony MacCarten, a sua volta ispirato da quanto annotato da sir Edward Bridges, segretario del Gabinetto di guerra, Churchill fece notare ad Halifax che l’approccio da lui proposto era “non solo futile, ma mortalmente pericoloso”; al che Halifax rispose sostenendo che il pericolo mortale era piuttosto “la romantica fantasticheria di combattere fino all’ultimo. Cosa vuol dire l’ultimo se non la completa devastazione?”. Churchill, allora, così replicò: “Ma quando la apprenderete la lezione? Dio santo! Quanti dittatori dovremo ancora vezzeggiare, blandire, favorire con immensi privilegi per capire che non si può ragionare con una tigre quando si ha la testa nelle sue fauci!”. A quel punto, Halifax avrebbe concluso questa franca conversazione, che riassume in effetti molto bene le loro idee in merito, dicendo a Churchill che, se questa era la sua unica prospettiva, allora le loro strade si sarebbero divise. E in effetti le loro strade si divisero, con Halifax che fu poi mandato a fare l’ambasciatore negli Stati Uniti, ma le loro rispettive posizioni illustrano molto bene le diverse “etiche” che adottavano: se infatti Churchill avesse condiviso la proposta del suo ministro degli Esteri nei due anni successivi il numero delle vittime sarebbe stato in Inghilterra di gran lunga inferiore e si sarebbe potuto anche tutelare molto meglio quel principio del rispetto assoluto della vita umana che era da entrambi condiviso.
Tuttavia, come Churchill ebbe ben chiaro, ciò sarebbe stato compensato dal maggior numero di morti che si sarebbero resi necessari per fronteggiare tardivamente il nazismo – a meno ovviamente di non esserne assorbiti, lasciandosi nazificare – e avrebbe messo in serio pericolo la libertà del proprio Paese cosi come quella dell’intera Europa. In questo caso, oltre al disonore e alla guerra, che non si sarebbe comunque in un secondo tempo potuto evitare, si sarebbero dovuti mettere in conto anche gli anni, e probabilmente i decenni, che la sottomissione a uno dei più sanguinari dittatori criminali della storia avrebbero determinato in termini di sofferenze e stermini di persone innocenti. Queste due etiche, dunque, non si contrappongono solo in virtù dell’adozione di diversi riferimenti – quali il numero di vittime e tragedie complessive, da un lato, e la difesa della libertà e indipendenza del proprio Paese e dell’Europa, dall’altro – ma anche, più semplicemente e direttamente, per il tener conto degli effetti della fedeltà ai propri principi esaminati in tempi successivi.
Se l’etica della convinzione ha il vantaggio di tener conto di conseguenze immediate, e dunque spesso assai più evidenti, l’etica della responsabilità ha infatti lo svantaggio di doversi commisurare con la considerazione di conseguenze spesso non altrettanto evidenti ai più, ma solo molto probabili agli occhi di chi ha competenze più solide e ha il coraggio intellettuale e morale di guardare in faccia le circostanze storiche facendo previsioni a più lungo termine, assumendosi così delle responsabilità che risulterebbero per molti insopportabili anche per la loro impopolarità. Forse per questo l’etica della convinzione è sempre stata quella più seguita dalle masse, dai partiti di massa e da statisti mediocri, mentre l’etica delle responsabilità è stata spesso privilegiata da grandi statisti e da partiti non di massa. Viene in mente, a questo riguardo e a mero titolo d’esempio, quando in Italia, al tempo della Prima Repubblica, Ugo La Malfa predicava quasi da solo nel deserto cercando di avvertire l’opinione pubblica e il Parlamento italiano dei pericoli connessi con una crescita sconsiderata del debito pubblico. Chi non voleva ridurre i servizi e le spese, rifiutandosi nel contempo di aumentare le tasse, si appellava infatti a principi, esigenze e diritti a tutti evidenti, il cui mancato rispetto era in grado di provocare immediate sollevazioni da parte dei cittadini.
E se gli stessi partiti al Governo che adottavano questa politica poco responsabile verso il bilancio ne scaricavano le conseguenze sulle generazioni future poco male, perché ciò che può avvenire in un futuro vago e remoto non è mai altrettanto evidente e convincente di quanto può verificarsi il giorno dopo. Ma gli esempi che si potrebbero fare per rimarcare la differenza tra le due etiche – entrambe presenti in tutti o quasi tutti, perché in ognuno sono presenti convinzioni etiche e anche una certa capacità di prevedere le conseguenze delle proprie scelte sotto il profilo morale e politico – sono davvero innumerevoli, e mi limiterò quindi a proporne solo due particolarmente significativi nell’attuale contesto storico, e sempre partendo dalla premessa che tutti gli attori in gioco, sia chi tende a seguire un’etica della convinzione sia chi tende ad assecondare l’etica della responsabilità, condividono il principio per cui bisognerebbe comunque risparmiare, anche in guerra, più vite umane possibile.
Il primo esempio fa riferimento al conflitto in Ucraina: chi è preoccupato per lo scoppio di un Terzo conflitto mondiale, che potrebbe in effetti verificarsi dopo che Stati Uniti e Regno Unito hanno concesso al Governo ucraino il permesso di usare a sua discrezione le armi che gli sono state fornite, sembra infatti assecondare l’etica della convinzione, ma così facendo sottovaluta il fatto, che invece risulta abbastanza chiaro a chi tende a privilegiare l’etica della responsabilità, che la sconfitta dell’Ucraina derivante dal non voler superare la linea rossa tracciata da Vladimir Putin potrebbe preludere a tragedie ancor più devastanti, perché con il dittatore del Cremlino politicamente rafforzato dalla sua vittoria renderebbe ancor più probabile una guerra mondiale da sostenere partendo da un posizione di accresciuto svantaggio, con l’aggravante, agli occhi dell’opinione pubblica di tutti i paesi in cui può esprimersi liberamente, di aver permesso il massacro di un popolo impegnato eroicamente a difendere la propria libertà e la stessa democrazia in Europa. Certo, nell’immediato, ci sono sicuramente maggiori rischi nell’oltrepassare la linea rossa tracciata da Putin che non facendolo, ma in tempi più lunghi il rafforzamento del potere che deriverebbe al dittatore del Cremlino da una politica di appeasement gli consentirebbe di alzare la posta con ancor più estese minacce alla sicurezza dell’Europa e dell’occidente democratico in generale, e con accresciute possibilità di successo. Anche nell’altro scenario che oggi mette in serio pericolo i già precari equilibri geopolitici mondiali, e cioè il conflitto d’Israele con Hamas, Hezbollah e l’Iran, chi considera eccessiva la reazione israeliana all’attacco del 7 ottobre 2023, auspicando un immediato cessate il fuoco, antepone la salvaguardia di vite umane oggi, nella Striscia di Gaza, a qualsiasi considerazione sugli effetti di un chiaro successo di Hamas.
Anche prescindendo dal fatto che le attuali vittime a Gaza dovrebbero essere imputate in primo luogo a chi ha iniziato questa guerra e a chi usa dei civili e dei bambini come scudi umani, è evidente che un cessate il fuoco oggi asseconderebbe l’etica della convinzione, non tenendo conto del fatto che fermarsi ora, senza aver tolto il controllo di Gaza a un’organizzazione terrorista e antisemita, significherebbe dichiarare il successo dell’azione terroristica del 7 ottobre e della strategia politica che l’ha ispirata e preparata, nonché delle sue specifiche modalità, di certo non dissimili, per la loro efferatezza e gratuita crudeltà, da quelle che caratterizzavano le azioni delle SS naziste. Nello scenario che si verrebbe così a determinare, per Israele il pericolo di trovarsi ancora più esposto agli attacchi criminali di Hamas e dei suoi alleati sarebbe decisamente maggiore, così come sarebbe maggiore la necessità di adottare misure difensive sempre più efficaci e più drastiche insieme ai suoi alleati occidentali, che risulterebbero non meno a rischio qualora la strategia del 7 ottobre dovesse rivelarsi vincente, anche alla luce della radicalizzazione dell’antisemitismo che nel frattempo essa ha reso possibile in tutto il mondo occidentale.
Anche in questo caso, sebbene comporti nell’immediato sicuramente un maggior numero di vittime, molte delle quali innocenti, l’agire in base all’etica della responsabilità eviterebbe che quelli che sono stati uccisi lo siano stati invano, dato che, in caso contrario, tutto ricomincerebbe da capo, come in un infernale girone dantesco, non appena Hamas, una volta rimasto al potere nella Striscia di Gaza, fosse in grado di riorganizzare le proprie forze. Infatti, la ripetizione, magari in forma anche più estesa, di quanto avvenuto il 7 ottobre, o comunque di analoghe azioni volte a massacrare, rapire e seviziare cittadini israeliani, sarebbe poi destinata a degenerare in un conflitto regionale dal quale nessuno sarebbe escluso e che verrebbe combattuto senza esclusione di colpi da parte di tutti, sia perché potrebbe far leva su un accresciuto odio verso Israele e il popolo ebraico in tutto il mondo sia perché nessuno – né Israele, né Hamas, né il regime iraniano – avrebbe a quel punto più nulla da perdere di fronte al rischio di una sconfitta che metterebbe in pericolo la propria stessa esistenza. Naturalmente, queste due etiche possono essere entrambe portate avanti in buona o in cattiva fede, o con diverse gradazioni di entrambe, e oggi non è infrequente che, specialmente l’etica della convinzione, sia spesso usata in modo strumentale per fini assai meno nobili di quelli che proclama di avere; ma in ogni caso, quando sono portate avanti in modo intellettualmente onesto, come nel caso di Halifax e Churchill, possono aiutare a comprendere, al di là di chi avesse ragione e chi torto, le cause profonde di una radicalizzazione che può percorrere in modo pericoloso e lancinante intere società.
Può capitare infatti, oggi ancor più di allora, che i loro interpreti risultino spesso, anche quando condividono intenti comuni, incapaci di dialogare e talora persino di rispettare le loro rispettive posizioni, dato che quelle dell’uno sembrano agli occhi dell’altro irrimediabilmente false e immorali. Oltre a tutte le ragioni politiche ed economiche che buttano incessantemente benzina sul fuoco di questa contrapposizione, l’impressione è infatti che essa tenda sempre più a radicalizzarsi anche per l’irriducibile disposizione di queste due diverse concezioni del rapporto tra etica e politica a procedere verso le proprie deduzioni divenendo progressivamente sempre più sorda alle altrui ragioni. In questo senso, gli intellettuali, i giornalisti e i politici, che più di altri avrebbero il compito di scongiurare questa deriva, non stanno probabilmente facendo ciò che la loro specifica vocazione (Beruf) gli dovrebbe suggerire di fare.
di Gustavo Micheletti