martedì 12 novembre 2024
Vittorio De Sica è stato un maestro totale del cinema. Straordinario regista e insieme formidabile attore. Corifeo del neorealismo e alfiere della commedia all’italiana. Come osserva in un saggio il critico Ernesto G. Laura, De Sica “preparava Sciuscià e canticchiava Ludovico nelle riviste della Roma del 1944; firmava Umberto D. e nello stesso 1953 componeva il cliché divistico del maresciallo di Pane, amore e fantasia”. A cinquant’anni dalla scomparsa (Neully sur Seine, 13 novembre 1974), è impossibile non riflettere sul suo retaggio. Il cineasta italiano che per quattro volte ha alzato la mitica statuetta dell’Oscar, con cinque candidature ha sfiorato il record di Federico Fellini. Una strada a lui è dedicata dalla città di Napoli (la vera patria nonostante la nascita il 7 luglio 1901 a Sora nel frusinate), diverse targhe celebrative e una lunghissima sequenza di premi nazionali, numerose retrospettive in giro per il mondo e la “benedizione” dei Cahiers du Cinéma che però gli preferiscono l’altro padre fondatore del neorealismo, Roberto Rossellini. De Sica è stato un uomo complesso, un vero “divo” a cavallo tra le due guerre mondiali, un regista raffinato ed elegante, un padre all’italiana, un attivista nelle battaglie del suo tempo contro ogni bavaglio alla libertà espressiva.
Il 1935 è l’anno dell’incontro professionale tra Vittorio De Sica e Cesare Zavattini. Nel film di Mario Camerini Darò un milione, l’uno è protagonista, l’altro soggettista. Da lì, per un trentennio la coppia dà vita a una serie di opere che hanno fatto la storia del cinema: da I bambini ci guardano a Una breve vacanza. “Uno dei pochi sodalizi artistici importanti del nostro cinema”, lo definisce il critico Claudio G. Fava. Non si tratta di una coppia chiusa, spesso si allontanano per collaborare con altri registi e altri sceneggiatori per poi ritrovarsi. Litigano, discutono, si confrontano, la voglia di lavorare insieme li unisce e riunisce fino al 1974, anno della scomparsa del regista. Vittorio combatte l’ultima battaglia contro un tumore ai polmoni che ne ha minato gravemente la salute. Eppure fino all’ultimo si trova stato sul set, da regista per Il viaggio con l’amatissima Sophia Loren e da attore nel film tivù del figlio Manuel, L’eroe. Da attore trasmette al figlio Christian modi e trucchi, facendone un personaggio popolarissimo, capace in qualche occasione di misurarsi più o meno direttamente con la lezione paterna come ne Il conte Max. Da regista ha influenzato più generazioni di registi e non solo italiani, specie per la capacità di trasformare storie locali, sommesse, prive di eroi spettacolari, in opere dal respiro universale come Ladri di biciclette, Umberto D., Ieri, oggi, domani, Matrimonio all’italiana.
Nella maturità prevale in lui la vocazione internazionale con pellicole di impeccabile confezione e cast “all stars” fino al capolavoro riconosciuto, Il giardino dei Finzi Contini, premiato con l’Oscar nel 1970. Da personaggio pubblico ha spesso sfidato le convenzioni, la censura, il pericolo. Si comincia dal matrimonio con Giuditta Rissone (nel 1937) da cui ha la prima figlia, Emi. Non è un matrimonio facile anche per la notorietà che allora Vittorio ha già come attore, tanto che un anno dopo avrebbe ha un’altra figlia in Spagna (Vicky Munoz), proprio mentre in Italia nasce Emi. Nel 1942, sul set di Un garibaldino al convento conosce Maria Mercader, se ne innamora e va a vivere con lei. La sposa in Messico facendone un adultero per la legge italiana. Per regolarizzare la posizione prende la cittadinanza francese, ma per tutta la vita vuole mantenersi fedele a entrambe le famiglie, tanto che i figli si incontreranno solo in età adulta. Se la sua vita privata resta tumultuosa anche per l’irrefrenabile passione per il gioco a cui perde intere fortune (riparate con partecipazioni ad ogni tipo di film), le sue scelte umanitarie durante la guerra sono meno note ma altrettanto significative.
Quando Roma diventa città occupata dai nazisti, De Sica rifiuta di traslocare al Nord nella Repubblica sociale e si inventa un copione da girare ancora a Cinecittà con il sostegno del Vaticano. Si intitola La porta del cielo e rappresenta il pretesto per dare rifugio a molti ebrei e antifascisti assoldati come comparse e ospitati a San Paolo fuori le mura. Considerato cattolico e umanista, si professa comunista, ma nel suo cinema prevalgono sempre valori più universali anche nell’impegno civile come nella difesa dei più deboli, degli ebrei, dei perseguitati. Per la storia del cinema, in una carriera lunghissima, carica di successi e onori, alcune gemme splendono più di altre: dopo l’esordio alla fine degli anni Venti nel cinema muto, diventa un divo dei “Telefoni bianchi” al tempo de Gli uomini che mascalzoni (1932) fino a I grandi magazzini (1939). Torna al successo come interprete negli anni Cinquanta con il maresciallo di Pane amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini e i suoi due seguiti, ma restano nella memoria anche il suo monologo de Il processo di Frine diretto da Alessandro Blasetti, così come l’intenso Generale Della Rovere diretto da Roberto Rossellini (1959), tratto da un romanzo di Indro Montanelli. La gloria immortale viene invece dalle regie che marcano i primi e decisivi passi nell’età del neorealismo, tanto che Ladri di biciclette rimane un film evento per intere generazioni.
Arriva dietro la macchina da presa dopo una formazione più classica (Maddalena zero in condotta, Teresa Venerdì, I bambini ci guardano). Poi il suo talento esplode come un fuoco d’artificio da Sciuscià del 1946 a Umberto D., fino a Miracolo a Milano e L’oro di Napoli. Dopo una pausa che ne muta il segno espressivo, torna al vertice con La ciociara (1960), che segna il punto più alto del sodalizio con Sophia Loren, poi ripetuto molte volte da Ieri, oggi, domani a I girasoli fino al senile Il viaggio. Da attore la sua tecnica ha un’impronta tipicamente teatrale, frutto della lunga gavetta sui palcoscenici di tutto il Paese, specie negli anni Trenta e che dispiegherà anche come cantante attingendo all’amato repertorio napoletano. Ma è di fronte alla cinepresa (e ancor più potendola guidare) che Vittorio De Sica ha saputo essere fino in fondo sé stesso, mettendo in campo un cuore, una sensibilità, una maestria che rimarranno unici nell’immaginario del secondo Novecento.
Domani, Rai Cultura ricorda Vittorio De Sica con una programmazione dedicata. Si inizia alle 8.30, su Rai Storia, con l’almanacco de Il giorno e la storia (in replica alle 11.45, alle 14 e alle 20). Alle 13 è la volta di Vittorio De Sica a Canzonissima, lo spettacolo televisivo Rai abbinato alla Lotteria Italia nel quale è stato più volte ospite. In una puntata del novembre 1970 e nella finalissima del 1971/72 è ospite di Raffaella Carrà e Corrado, che prova a dirigere con risultati clamorosi, e poi dà prova di recitazione decantando la poesia di Salvatore Di Giacomo Lassame fa a Dio, e ritorna a Canzonissima con il figlio Christian, ospiti di Pippo Baudo e Loretta Goggi nel 1972. Alle 13.15 su Rai 3 e alle 20.30 su Rai Storia, poi, Paolo Mieli e lo storico Ermanno Taviani rileggono la figura di De Sica in Passato e Presente, tratteggiando il ritratto di un artista completo che ha lasciato una traccia indelebile nel cinema italiano e mondiale.
A seguire – alle 13.30 su Rai Storia – in Stasera: Gina Lollobrigida, programma con la regia di Antonello Falqui, Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida si cimentano in uno sketch nel quale replicano la celebre scena dell’episodio Il processo di Frine di Altri Tempi (1952) di Alessandro Blasetti, nel quale De Sica è un distratto avvocato d’ufficio di una procace cittadina, interpretata da Gina Lollobrigida. Nella versione televisiva del 1969, si ironizza sull’eccessiva sensualità dell’attrice per gli standard della tivù dell’epoca, e l’avvocato dell’accusa è interpretato da Riccardo Garrone. Alle 17.30 è in scena Vittorio De Sica: autoritratto, nel quale Vittorio De Sica, dal Teatro Eliseo, racconta la sua vita di attore e regista e incontra alcune figure importanti per la sua carriera come Emma Gramatica, Sergio Tofano e Cesare Zavattini, in un documentario per la tivù firmato da Giulio Macchi, pioniere della divulgazione scientifica in Rai con Orizzonti della scienza e della tecnica.
di Eugenio De Bartolis