venerdì 1 novembre 2024
Sono vergognosamente stupefatto, non conoscevo la Sonata Opera 106, numero 29, per pianoforte di Ludwig van Beethoven.
La Sonata è una conquista. Mai un compositore in qualsiasi arte ha espresso così direttamente i suoi stati espressivi, appunto, emozionali come in questa Sonata. Beethoven si scuote ogni forma esterna, fa quel che sente al di là di ogni regola, gira, torna, si allontana, affossa, riappare, svaga, crolla, inceppa, si ostina, pare lanciato risolutamente, aria, luce, no, è imprigionato senza uscita, crolla, sì, ma tenta ancora...
Nessuno ha espresso la condizione umana come Beethoven in questa Sonata. Non c’è scampo. Beethoven suscita un motivo, lo abbandona, schermaglia, ne sorge altro, niente, divaga, ritenta, zero, crolla, riemerge, divaga, piomba, incurante di fare e disfare, di girare e rigirare, estendere i tempi... La Sonata diventa infinita, nessuna regola esterna, e tale sperimentalismo che divora lo sperimentalismo del XX secolo. La soggettività possente diventa oggettività, un altro mondo (lo dice Adorno, almeno in questo fondatamente).
Una Sonata insostenibile, trae la mente, obbliga a immedesimarsi nella soggettività di Beethoven, nessun “motivo”, nessuna “bellezza”, scorribande senza fine e senza conclusione, il senso viene dal non senso, dal girare e rigirare a mosca cieca della mente. Come Beethoven riuscisse a contenere questo nichilismo senza crollare è da superuomo. In effetti, però, si uccise ubriacandosi, per questo sbattere alla grande senza porte, e per disperazione contingente, il maledetto nipote, la maledettissima cognata... Ma questa è la vita.
Nell’Opera ha dato all’umanità la più radicale certificazione dell’esistenza priva uscita mai concepita. Sormontò ogni precipizio. E contro l’abisso e sull’abisso montò e stese il ponte della gioia. Solo una intensissima volontà di gioia può sottomettere il precipizio e schiacciarlo passando “sopra”. Calpestando! Ne fossero consapevoli e capaci gli uomini. Ma ciascuno a suo modo!
di Antonio Saccà