giovedì 17 ottobre 2024
Il film Berlinguer, la grande ambizione di Andrea Segre, con Elio Germano nei panni del più famoso segretario dell’ex Partito comunista italiano – e del più amato dal popolo – è semplicemente bellissimo. Presentato ieri alla Festa del cinema di Roma è piaciuto e i lucciconi di quelli over 60 si sprecavano. Peccato che l’agiografia che lo permea finisca per oscurare il tutto. E per mistificarlo. Fino a rendere insopportabili una serie di passaggi che possono così essere riassunti: prima di tutto una famiglia da “Mulino bianco”, con tanto di figlio ribelle che va alle manifestazioni di Potere operaio e cui il padre deve spiegare perché sbagliano i compagni che propugnano la violenza di piazza. Poi, quando si parla del referendum del divorzio, non una menzione per Marco Pannella e il Partito radicale. Infine, l’avventura terrena di Berlinguer il film la fa terminare con l’epilogo della tragedia di Aldo Moro e con il tramonto del sogno del compromesso storico, come se Berlinguer non avesse vissuto nei sei anni successivi che precedettero la sua morte nel giugno 1984 anche la vicenda degli euromissili, nonché quella dei rapporti della sinistra italiana che comprendeva anche Bettino Craxi (altro cancellato nella sceneggiatura) con Ronald Reagan e Margaret Thatcher e con il pontificato di Papa Wojtyła, con annesso Solidarność, per non parlare dello scandalo P2.
Cancellata anche la marcia dei 40mila quadri della Fiat mentre parlano solo i compagni che scioperano. Si vedono, a proposito di questi eventi, soltanto alcuni fotogrammi di repertorio dell’epoca che sfumano prima dei titoli di coda, come se sceneggiatore e regista si fossero resi conto di averla tirarla troppo per le lunghe e si volessero sbrigare a chiudere la pellicola. Non una parola sulla resistibilissima battaglia del Pci di Berlinguer nel 1975 contro l’instaurazione della tivù a colori in Italia e con il conseguente ritardo sulla scelta tra i codici Pal e Secam, cosa che portò indirettamente anche al fallimento di un’industria, la Voxon, che era un fiore all’occhiello del made in Italy. Infine, almeno due perle che gli spettatori non di “bocca buona” non possono lasciare passare in cavalleria: all’inizio quando si rievoca il tentativo di eliminare Berlinguer in Bulgaria inscenando un finto incidente stradale da cui uscì miracolosamente illeso, Berlinguer di ritorno a Roma parla con i propri collaboratori e raccomanda una sorta di silenzio omertoso per evitare problemi al partito e alla Repubblica italiana. Cosa non esatta almeno in questi termini che farebbero pensare a una sorta di atteggiamento para-mafioso. Ancora peggio le modalità della scena in cui Berlinguer-Germano deve comunicare ad Armando Cossutta la sua estromissione dai futuri rapporti con l’Urss, specialmente di natura economica: Elio Germano alza la musica al massimo mentre parla come in una scena di Scarface di Brian De Palma o di un film di Quentin Tarantino. Cosa assolutamente inverosimile. Per il resto il film è un ritratto dei vezzi di questo segretario aristocratico e sardo (a proposito, scompare anche la figura di suo cugino Francesco Cossiga) sempre circondato da dirigenti e da folle di compagni plaudenti. Magari l’intenzione era buona nel concepire così il film, ma è di quella bontà con cui si lastricano le strade dell’inferno. E un film tecnicamente molto bello, ma nato sotto il peccato originale dell’agiografia, e venato di malinconia “amarcordiana” tanto da connotarlo nel titolo come “la grande ambizione”, diventa l’ennesimo conato ideologico cui meglio si attaglierebbe l’etichetta della “grande mistificazione”.
di Dimitri Buffa