mercoledì 7 agosto 2024
Il Decameron, in questi giorni su Netflix, è un racconto adattato e reso bene proprio perché la piattaforma che lo proietta è quella che è. Giovanni Boccaccio, autore del libro nel XIV secolo, avrebbe probabilmente apprezzato l’adattamento e la riuscita della serie. Ottimi i primi episodi, via via va stemperando l’interesse e la resa perché ripetitivo. L’effetto iniziale è tanto divertente quanto spiazzante. Nel mezzo di una epidemia di peste – si è intorno al 1300 – un gruppo di invitati in una villa in Toscana vicino Firenze si rifugia lontano dal mondo, e letteralmente dà fuori di matto. La parola d’ordine è: siccome moriremo tutti tanto vale che da qui ad allora ci divertiamo e diamo sfogo ai nostri sensi, e non solo.
Boccaccio si diverte a scambiare le parti della vita per cui la serva diviene dama e viceversa. Racconta la furbizia e violenza della servitù contro il nobile e l’ignavia e la supponenza, mista alla totale inettitudine ed inutilità dei signori. È un gioco delle vite di fronte al quale l’autore ride e si compiace. Come la serva-padrona, madre dell’erede della villa, che tutti vogliono per sé contendendosela. L’aspetto più divertente – su cui Boccaccio si intrattiene moltissimo – è il volere mostrare la stupidità e l’indifferenza verso la vita a fronte delle masse di morti in città e dintorni. La quotidianità, in tutti i suoi aspetti più comuni e anche sporchi, regna su tutto, incurante che fuori dalla villa si muore ininterrottamente e per un nonnulla. I vivi, quelli cioè non infettati dalla peste, continuano a campare come se niente fosse, non considerando di poter essere morto di lì a poco. Si vive nelle gelosie, nell’avidità, nella miseria umana e nella ricchezza. Boccaccio fotografa la nostra commedia umana in cui i vivi passano oltre e non si soffermano sulla morte ed i morti, vivendo come se fossimo – fossero – eterni.
È molto interessante e divertente la visione di questi otto episodi in cui, a uno a uno, ospiti e nuovi venuti, trovano la morte per cause diverse dall’epidemia di peste ma più comuni, abituali, umane. Belle le scene di sesso in cui eterosessuali ed omosessuali si vogliono, si danno e si prendono. Tutto è “greve”, i sentimenti sono frammisti alle miserie del corpo, le menti sono folli e corrotte, le persone pazze. C’è la fede fondamentalista, che somministra morti al rogo, sul patibolo, direttamente con taglio della testa o conficcamento della spada o coltello. I nobili impuniti vagano tra le nuvole, mentre medici e servi sono pronti a tutto per raggirarli e gabbarli. Per esistere, per sopravvivere.
Alla fine muoiono tutti, il come è puro divertimento contro le credenze assurde degli uomini che il Boccaccio si diverte a descrivere e prendere in giro così bene. Amicizia e tradimento sono la stessa cosa, fa dire l’autore al nobile impotente ed obeso, tradito dal suo stesso medico che lo avvelena. Sorelle che si uccidono tra loro, uomini omosessuali che si amano di nascosto – come tutti gli altri d’altra parte – e anche vero amore di cui, in fondo, Boccaccio non sa che farsene. L’animalità della vita, i corpi da usare finché respirano. Del Decameron di Boccaccio si era capito poco a scuola. Forse lo insegnano troppo presto, cioè ad una età in cui si capisce poco, anche perché si crede che tutto sia molto serio o meglio serioso. E Boccaccio al contrario non lo è. Adesso Netflix, con la sua rivisitazione pazza, rende l’idea che Boccaccio probabilmente voleva trasmettere. Bellissime la scenografia e le musiche. Con Enya poi raggiunge il massimo della introspezione, fotografia e bellezza.
di Guia Mocenigo