Una casa-museo per Emanuele Severino

mercoledì 22 maggio 2024


Ho letto una notizia che mi ha scosso. La creazione del Centro casa Severino. Di botto, un getto di ricordi: di Emanuele Severino. Palermo. Convegni su Friedrich Nietzsche. Quando entrai in albergo, una donna dal bel volto mi venne incontro, mi porse la mano, dichiarò: Sono la signora Severino. Poi conobbi in persona fisica Emanuele: corpo forte, duro, tutto muscoli ed ossa, volto reciso, occhi ferrei di un azzurro asciutto, pochi capelli sul cranio in esposizione cortecciale. E mani agguantanti, spesse. Già ci conoscevamo attraverso gli scritti. Cortese, al modo passato, con le dovute formalità. Con una grafia – almeno nelle pagine a me dirette – ondulatoria, incomprensibile, ghirigorica.

Poi, la sua convinzione che il divenire non esiste e l’essere non può non essere in quanto non è concepibile che sparisca essendo appunto essere mi pareva talmente indimostrabile che non serviva neanche contrastarla. Come potrebbe succedere che se un individuo non fosse più bambino, il suo essere stato bambino resterebbe? Dove, in che luogo? Severino ribadiva che l’essere non può non essere ma non attestava dove era l’essere stato dell’essere. Dove il, passato? Io non dubitavo, il divenire non rende l’essere nullo, ma lo trasforma e spazza il passato. Per Severino ogni momento persiste eternamente. Una maniera di divinizzare l’essere come totalità incancellabile. Nostalgie religiose.

Aggiungo che io negavo addirittura l’essere e mi fermavo agli esseri, distinti, pur con il rispetto a Parmenide (sommamente stimabile per aver compreso nell’essere la coscienza. E non viceversa, l’essere nella coscienza. Ancora più stimabile per avere ricondotto l’essere all’esistente, senza attribuzioni divinizzanti). Severino tornava a Parmenide ma rivestendolo di eternità, una nostalgia cattolica (sarebbe interessantissimo vagliare come in moltissimi filosofi la filosofia è un surrogato della teologia, della religione). Al dunque, io riconoscevo e riconosco non l’essere, ma gli esseri, individuati, differenziati, mutativi, che non diventano nulla ma si trasmutano.

Qualche notazione meno irrealistica sul “destino” dell’Occidente legato alla tecnologia, alla potenza. In Severino questa concezione proveniva dal non accettare la staticità eterna dell’essere. Con la tecnica l’uomo vuole trasformare la realtà, e finisce con il forzare le cose e scontrarsi con gli altri uomini. La tecnica è fonte di violenza. Se ne poteva discutere e se ne discuteva, a Palermo, nei convegni attivati da Alfredo Fallica e Tommaso Romano.

Ma il ricordo è d’altra natura. Facevamo colazione insieme con Gianni Vattimo. Scoprimmo, Severino ed io, di amare la musica classica, addirittura, Severino si intendeva di pianoforte e io baritoneggio non male. Una sera egli suonò qualcosa di Johann Sebastian Bach, aveva mani e dita da boscaiolo, si percepiva che sentiva quel che premeva sui tasti bianchi e neri. Io, fuori, nella piazza del Teatro Massimo cantai, Eugenio Scalfari, Claudio Magris, Gianni Vattimo, Sossio Giametta, e Severino furono ascoltatori.

Divenire o non divenire, passarono prima mesi e poi anni. La deliziosa, affabile Esterina, moglie di Severino, morì. Gli scrissi, rattristatissimo, Severino mi chiamò, doveva amare la moglie, era un apparente burbero. Che bella coppia. Che bel ricordo. Si discuteva con Severino. Era appassionato del dialogo. Essere o non essere, umanamente esisteva. Spero che la Casa museale che i familiari hanno aperto ai visitatori abbia affluenti. Non avrò la disposizione d’animo di visitare la sua abitazione museale. Lo ricordo vivente in me non dove è vissuto e non vive più. E se avesse ragione lui: che niente svanisce? Io credo nei ricordi.


di Antonio Saccà