Sulle alchimie pittoriche di Julius Evola

martedì 21 maggio 2024


In nessun altro campo dei suoi molteplici e profondi interessi, Julius Evola si è rivelato essere contraddittorio come in quello artistico. Contraddittorio verso sé stesso o verso i tanti, forse troppi, critici ed esegeti sorti soprattutto negli ultimi anni che invece non hanno sempre saputo cogliere alcuni passaggi significativi della produzione pittorica del più odiato “filosofo” italiano del Novecento? Se ancora molto ci sarebbe da dire e da scoprire sulle poche, relativamente poche dacché molte sono andate disperse, opere dipinte del Barone nero, ancora di più ci sarebbero da ripristinare alcuni dati inoppugnabili che collocano Evola non soltanto come il più importante – nonché unico – esponente del dadaismo italiano (seppur in ritardo sui tempi) ma come un “unicum”, un caso irripetibile che supera e trascende qualunque tentativo di categorizzazione e dunque di riduzione che miri a volerlo contenere in una determinata categoria artistica soprattutto se legata alle avanguardie novecentesche.

Partiamo da uno dei tanti opinabili punti: il tentativo di voler ricondurre e relegare la pittura evoliana allo schema obsolescente del già trascorso Movimento futurista. Tentare quest’operazione, ovvero sostenere che Evola fu “futurista” in quanto allievo di Giacomo Balla nel suo studio romano, sarebbe come affermare che Giotto di Bondone sia stato un pittore bizantineggiante e legato all’iconografia altomedievale in quanto allievo di Cimabue, oppure sostenere che Leonardo da Vinci sia stato non altro che il seguace pedissequo di Andrea del Verrocchio. I paragoni non sono impropri dacché Evola va pensato come un uomo della Rinascenza pagana e non soltanto come un nostro contemporaneo che avverte la “crisi del mondo moderno”. Crisi che egli ravvisa anche e soprattutto, forse, nell’arte, dopo il breve periodo nel quale di questa si occupa, sempre mantenendo una sorniona e distaccata ironia e il suo tipico, sarcastico senso dell’umorismo, che si traduce proprio in certe sue composizioni pittoriche.

Insomma, Evola si è preso gioco dei critici del suo tempo? Sarei propenso a ritenere di sì e anche che abbia continuato a farlo a lungo, persino durante la breve stagione del secondo dopoguerra nella quale riprese a dipingere, ripetendo opere già espresse. Evola fu un grande pittore? Tecnicamente no, l’uso delle velature appreso da Balla è spesso soltanto accennato a favore di un’irruenza di forme geometriche e di colori che rimandano alle dottrine filosofali d’oriente sino al pitagorismo, in una miscela decisamente “moderna” che consente all’artista di “cavalcare la tigre” e trasmettere di sé ciò che neppure lui conosce a colui che guarda in un oscuro messaggio iniziatico. Se Julius avesse realmente padroneggiato una tecnica pittorica tradizionale, il suo spirito sarebbe stato certamente più incline a manifestarla nell’ordine iconografico del “Realismo magico” del Gruppo Novecento.

Più intriganti sono decisamente i suoi “nudi”, legati a quella “metafisica del sesso” che tanti sopraccigli fece alzare per la sua peculiarità e profondità di analisi a quel tempo ben lontano dall’abbrutimento erotico attuale. Evola dunque non fu mai “futurista” anzi ne avversò il manifesto in maniera esplicita affermandone la sua natura “grezza” e se ne distaccò come non sarebbe potuto essere altrimenti e come egli stesso dichiarò nella sua autobiografia spirituale Il cammino del Cinabro. Le parole con le quali Julius pinctor definisce il fenomeno futurista non lasciano pertanto adito a dubbi, così come discutibile potrebbe essere l’accostamento della ricerca spirituale e mistica del Nostro, quando gli viene confrontato come quasi un suo parallelo, Vasilij Vasil’evič Kandinskij.

La spiritualità artistica dei dipinti di Kandisnkij è infatti totalmente diversa da quella eroica, alchemica, buddica e pagana rappresentata e al tempo stesso occulta, nelle opere di Evola. Insomma Evola non è un Kandinskij dimenticato nella Roma tra le due guerre, ma un caso talmente anomalo nel campo della storia dell’arte contemporanea da renderlo nel campo maestro, allievo e scuola a sé stante. La pittura evoliana, addirittura applicata alla decorazione e all’illustrazione, è pertanto anticipatrice in maniera preveggente di tutta una serie di rivoluzioni artistiche che vedranno la luce negli anni Sessanta del Novecento, con la Pop art e con la psichedelia, eppur nel contempo rimanendo fedele ai canoni della tradizione universale e perenne, immutabili come stella polare e altrettanto luminosi. Allora si renda omaggio a questo che fu un grande uomo che applicò il proprio ingegno con successo a molti differenti campi, pure restando fedele al grande silenzio che vuole l’artista scomparire, innominato e segreto, davanti alla propria opera, lasciando che i critici versino fiumi d’inchiostro mentre lui di certo ne ride, sogghignando e guardando la propria carovana passare verso il deserto più profondo.

(Da Fermenti n. 257, 2024)

(*) Tratto da Pagine Filosofali


di Dalmazio Frau (*)