martedì 14 maggio 2024
Nell’opera poetica di Edgar Lee Masters (Antologia di Spoon River, 1915) la giustizia è una donna bellissima con una benda sugli occhi:
Io vidi una donna bellissima, con gli occhi bendati ritta sui gradini di un tempio marmoreo. Una gran folla le passava dinanzi, alzando al suo volto il volto implorante. Nella sinistra impugnava una spada. Brandiva questa spada, colpendo ora un bimbo, ora un operaio, ora una donna che tentava di ritrarsi, ora un folle. Nella destra teneva una bilancia; nella bilancia venivano gettate monete d’oro da coloro che schivavano i colpi di spada. Un uomo in toga nera lesse da un manoscritto: “Non guarda in faccia a nessuno”. Poi un giovane col berretto rosso balzò al suo fianco e le strappò la benda. Ed ecco, le ciglia erano tutte corrose sulle palpebre marce; le pupille bruciate da un muco latteo; la follia di un’anima morente le era scritta sul volto. Ma la folla vide perché portava la benda.
L’immagine che vuole dare Masters è quella di una giustizia posseduta dalla “follia di un’anima morente”. L’avvocato poeta, proveniente dagli Stati Uniti, ha preso parte a una causa davanti alla Corte Suprema di Washington, difendendo John Turner, un cittadino britannico. Purtroppo, nonostante i suoi sforzi, il caso si è risolto con una condanna all’espulsione per Turner. Quest’esperienza ha lasciato un’impronta indelebile in Masters, portandolo a riflettere sulla possibilità che il sistema giudiziario possa essere strumentalizzato per fini di vendetta di classe. È stato proprio in seguito a questo processo che Masters ha acquisito una consapevolezza critica sulla natura della giustizia.
Non sorprende, dunque, che il suo lavoro più rinomato, l’Antologia, sia stato dedicato alla memoria dei sette anarchici condannati a morte nel 1887 per il loro coinvolgimento nelle manifestazioni del 1° maggio 1886 a sostegno della giornata lavorativa di otto ore. Questo episodio storico ha rappresentato per Masters un chiaro esempio di come il sistema giudiziario possa essere utilizzato per reprimere i movimenti sociali e sottolinea la necessità di una giustizia più equa e imparziale. Il simbolo che lo scrittore associa alla giustizia è l’immagine di una figura femminile, spesso bendata, che tiene in mano una bilancia (a volte a due piatti, altre volte una stadera a un solo piatto, simbolo della misurazione dei peccati e delle colpe) e una spada nell’altra mano (simbolo delle punizioni e delle minacce). Questa rappresentazione simbolica sottolinea il potere e la responsabilità della giustizia nel mantenere l’equilibrio e nel proteggere i diritti dei cittadini. Ma non sempre la benda ha indicato una giustizia ingiusta.
I greci hanno intensamente speculato sulla natura del diritto e della giustizia, assai prima di creare una filosofia del diritto nel significato nostro del termine. Sin dai poemi omerici emerge una fede inconcussa nella giustizia come fondamento di ogni più alta forma della vita umana. Nel pensiero di Omero, infatti, dike era la linea di demarcazione tra la barbarie e la civiltà. Dalle pagine dell’Aedo si trae che, ovunque la giustizia regni, l’uomo poggia su un terreno fermo e gode di piena sicurezza e protezione sulle persone e nella proprietà; egli è sicuro, persino, come forestiero in terra straniera. I poemi epici di Esiodo mostrano un diverso grado di sviluppo. Infatti, il concetto omerico del diritto (themis) cede gradualmente il posto al termine favorito di Esiodo, (dike); in altre parole, si passa gradualmente da concezione autoritaria verso una concezione razionale del diritto, nella quale assume rilievo il fattore di uguaglianza e di obbligazione reciproca.
Né Themis né Dike avevano la benda e neanche la spada; del resto, giustizie non scritte ma figurate non vengono facilmente in mente. Le divinità della mitologia greca non si distinguono per la loro particolare equità; né l’impetuoso Zeus, né tantomeno l’astuta Pallade Atena, spesso invocata per giudicare, ma che per capriccio ha portato Ajax alla follia, trasformandolo in una furia. Negli esseri umani, più che di malvagità o colpa, si tratta sempre di un’oscurazione della ragione, un errore denominato amartìa.
Roma, invece, si è concentrata principalmente sulla creazione di concetti, regole e procedure per la convivenza tra gli uomini, i cui principi sono ancora noti oggi e riaffiorano nei secoli in Europa ogni volta che la giustizia è riportata alla sua dimensione terrena.
Nell’ebraismo e successivamente nel cristianesimo, la giustizia assume una dimensione trascendente, in quanto connessa con la colpa originaria dell’umanità. Il primo libro della Bibbia, la Genesi, narra della fatale disobbedienza di Adamo ed Eva, che porta alla perdita del paradiso, alla morte e al dolore. La prima spada è quella dell’arcangelo che li scaccia ad est dall’Eden. Da allora, la storia è un tumultuoso dialogo tra gli uomini imperfetti e quindi ingiusti, e Dio – l’unico Dio, il solo in cui risiedono conoscenza e giustizia. La divinità non può essere priva di vista, dunque per lungo tempo l’Occidente cristiano ha mantenuto intatta e vigilante questa Giustizia, considerata una virtù cardinale. E così viene raffigurata, come una figura bella ma severa, da artisti come Giotto e i senesi. La benda sugli occhi rimane un attributo della mutevole Fortuna, la quale non possiede nulla di virtuoso o divino. È nei primi anni del 1400 che compare per la prima volta una rappresentazione della Giustizia bendata, in un contesto secolarizzato, quasi come un presagio della Riforma, in un periodo in cui si sente già il bisogno di un cambiamento nella Chiesa.
Ma sarà verso la fine del secolo che, nelle illustrazioni della Nave dei folli di Sebastian Brant (1494), giurista e poeta, si vede una figura femminile con spada e bilancia mentre un folle le lega una fascia sugli occhi. Questo folle, con un copricapo a sonagli, ricorda il “folle” di Shakespeare che dice crudeli verità di fronte al re, cosa che non sarebbe permessa a un normale cortigiano; si intravede qui l’ambiguità della follia, tema ben conosciuto da Erasmo. Da quel momento – la Nave dei folli fu un vero bestseller del suo tempo – la rappresentazione della giustizia bendata si diffonderà in dipinti, incisioni e statue, soprattutto nel XVI secolo. Tuttavia, il suo significato cambia nel tempo. In Brant era sicuramente interpretata in senso negativo, impedire alla Giustizia di vedere era considerato un atto da pazzi. Ma intanto Lutero è già presente e separerà nettamente la giustizia umana da quella divina: la colpa è intrinseca all’uomo, legati come siamo al peccato originale; saremo salvati o condannati per grazia, non per le nostre azioni.
La giustizia umana non deve coinvolgere Dio, essa rappresenta piuttosto l’autorità terrena, alla quale – come impareranno duramente i contadini di Thomas Müntzer – bisogna sottomettersi. In un mondo segnato in modo indelebile dal peccato, gli uomini sono intrinsecamente soggetti alla tentazione e lo stesso vale per le istituzioni che creano. E a meno di quarant’anni dall’opera di Brant, nella pubblicazione della Costituzione penale di Worms del 1531, quella copertura diventa una necessità positiva: con un velo che copre gli occhi, la giustizia si priva della visione delle parti che vi si rivolgono, sia il ricco e il potente, sia il povero che non possiede nulla. Solo così può garantire la difesa delle vedove e degli orfani che si rifugiano sotto la sua immagine, seppur sfavillante ma priva di vista. La benda è diventata un simbolo di imparzialità.
Pertanto, le statue della giustizia che spesso si ergono sopra le fontane nelle piazze sono bendate, poiché come l’acqua, la giustizia deve essere un bene comune.
(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino
di Daniele Onori (*)