giovedì 9 maggio 2024
Al Teatro Argentina di Roma va in scena fino al 19 maggio l’opera teatrale che rappresenta il vero e proprio testamento politico-artistico sull’arte dal vivo del grande maestro Eduardo De Filippo, dal titolo eloquente L’arte della commedia. Il regista Fausto Russo Alesi interpreta il ruolo principale di Oreste Campese, capocomico di un teatro itinerante montato su un tendone e con sedie per il pubblico andate distrutti a seguito di un incendio. Campese è così rimasto in miseria e in strada con i suoi, perché la compagnia non aveva rinnovato la polizza assicurativa: un bene, a posteriori, altrimenti i paesani avrebbero sospettato. Invece così, gli attori hanno raccolto la simpatia e l’ospitalità della gente del posto. Tutto ruota, in questa bellissima messa in scena, sui rapporti conflittuali tra società, Stato-istituzione, borghesia e popolo, da un lato, e l’attore-autore dall’altro. Un vero e proprio vortice di causa-effetto, dove le responsabilità e le carenze dell’uno sono letteralmente annidate in quelle dell’altro. Un alveare di conflitti insanabili, la cui vittima predestinata è, sempre e comunque, “la suprema verità che è stata e sarà sempre la suprema finzione”. In poche parole l’antefatto: un grave incidente ferroviario richiama il personale di polizia, in servizio presso la Prefettura, sul luogo del disastro, lasciando solo un giovane, inesperto e neo assunto piantone ad attendere alle esigenze del prefetto De Caro (Alex Cendron). Questo è lo spazio scenico per cimentare la tesi di Eduardo per cui “Il teatro è vita e la vita è l’alter ego del teatro stesso”. In questo senso, l’attore coincide pienamente con il suo personaggio e diventa indistinguibile da esso, per chi non conosca le vere sembianze di quest’ultimo nella vita reale.
Il dilemma-mistero dell’opera è proprio questo: “Prova a distinguerci, tra me attore e il mio personaggio”, tu che non ci conosci da separati. E questa la sfida rimane irrisolta fino alla chiusura del sipario, nel confronto aspro tra prefetto e capocomico. Mancando i testimoni (come l’anziano maresciallo), nessuno conosce di persona e da molto tempo i nomi, i volti e la vita di coloro che sono nella lista delle persone da ricevere prima di tutti: il farmacista, il medico, il parroco, la maestra elementare. Per il nuovo prefetto appena insediato, che non ha la minima idea di chi siano i personaggi veri, sarà quindi impossibile distinguere tra vita reale e finzione. Per di più, come il piantone, assegnato all’ufficio da pochi giorni, nemmeno il suo segretario (Paolo Zuccari) conosce i paesani, avendo seguito il prefetto nel trasferimento da altra sede. Ma anche il povero rappresentante dello Stato non sta messo bene, dato che nei bagni del suo vetusto palazzo manca l’acqua, e dove questa c’è è pure fredda, perché senza scaldabagno. Il prezioso oggetto, fatto installare dal predecessore di De Caro a proprie spese, è stato infatti smontato e portato via dal legittimo proprietario, per essere installato nella sua nuova abitazione di servizio. Pertanto, come la Napoli di Eduardo, il palazzo della Prefettura è un nobile decaduto, con grandi, malcurati saloni baroccamente decorati e arredi d’antiquariato fatiscenti.
Nel Sud depresso, poi, sul tavolo del prefetto si accumulano gli affari minuti: suppliche per un sussidio, richiesta di posti di lavoro e di licenze di vario tipo, denunce e anonimi diffamatori. Tornando al tema così caro a Eduardo, nel suo testo ambientato a metà anni Sessanta ci si chiede che cosa sia e come si faccia teatro. E, in proposito, la sua morale è sconvolgente. Siccome la borghesia non vuole la solita zuppa degli autori classici, allora ecco che nei teatri da lei frequentati (ma non dal popolo!) dilagano le avanguardie teatrali con opere simboliche e intellettualoidi che, ovviamente, non hanno nulla che vedere con il teatro popolare, comprensibile a tutti. Perché, poi, “il pubblico è maturo, vuole il suo autore, quello che gli racconta i fatti di casa sua, e che gli fa riconoscere se stesso fra i personaggi della commedia”. Eduardo, attraverso la figura del prefetto De Caro, mette a confronto il punto di vista dell’istituzione-Stato (che tutela la funzione morale del teatro, sovvenzionandolo con risorse pubbliche) con la sostanza dell’anima dell’attore, che potrebbe essere meglio assistito dalla creazione di un albo professionale. In tal modo, i suoi iscritti fuoriuscirebbero definitivamente dalla schiera degli “sbandati” e di quelle generazioni di comici, i quali da secoli riescono a “dominare la fame ingoiando saliva”.
Ma, poi: davvero un Attore o Autore, passato o moderno, è veramente libero di rappresentare e dire sul palcoscenico le scomode verità, gridandole in faccia, per tramite del suo pubblico, al potere in carica? E che dire della necessità di “avere coraggio” nella scrittura di un’opera, o nell’improvvisazione a braccio, semplicemente per dire la Verità? Così, la rappresentazione va avanti a lungo, in cui i vari attori si esibiscono in pezzi di autentica bravura, rendendo indistinguibili fantasia e realtà. Come accade nel caso della strepitosa esibizione del curato Padre Salvati (interpretato da un irresistibile Gennaro De Sia), che vuole affibbiare al Prefetto una ragazza madre e il suo nascituro. O quando entra in scena il medico comunale, che riesce a farsi autorizzare dal prefetto il suo altarino “laico”, con tanto di biglietti di ringraziamento dei propri pazienti per guarigione avvenuta, da appendere alla porta del suo studio, in modo da creare un alter ego agli ex voto appesi al Crocefisso dell’edicola che sovrasta il vicolo. E che dire del racconto folle e delirante della maestra d’asilo (Imma Villa), che pretende dal Prefetto di essere giudicata rea di infanticidio? Compagnia spettacolare e spettacolo imperdibile!
di Maurizio Bonanni