martedì 30 aprile 2024
Che cosa cercano un occidentale e la sua guida indigena nel fatato regno di Bhutan? Un’arma storica, a quanto pare. Per la precisione un rarissimo moschetto della Guerra civile americana che, per ogni buon collezionista, ha un valore inestimabile. E, parimenti, che cosa cerca un giovane monaco buddista su mandato del suo maestro? Un’arma (anzi, due) qualsiasi anche lui ma, si direbbe, per ben altri e non meglio specificati fini mistici. E che non vi sembri strano, ma questa è davvero una ricerca ardua, dato che solo lo scarno esercito bhutanese ha una vaga idea dell’uso e del possesso delle armi per fare la guerra. Ora, l’intreccio per così dire del cammino dei due “ricercatori”, uno in toga e l’altro in jeans, è la pietra filosofale del bellissimo film di Pawo Choyning Dorji, C’era una volta in Bhutan (da oggi nelle sale italiane), che viaggia simbolicamente tra il Vecchio e il Nuovo testamento del potere e della rappresentanza all’interno di un popolo mitissimo e ben governato. La vita millenaria del Bhutan viene letteralmente sconvolta, quando il suo re amatissimo decide nel 2006 di spogliarsi delle sue prerogative regali, per donare al popolo la democrazia. Già: ma come si insegna a votare? Serve una simulazione e dei funzionari governativi inviati sul territorio (in questo caso, una giovane coordinatrice ministeriale), che seguano il processo di simulazione e di scolarizzazione popolare all’uso della democrazia. Cosa difficilissima per un popolo legato ai riti della terra e alle stagioni della natura, in cui la solidarietà povera è il vero cemento di un’intera comunità.
Così, famiglie che prima erano unitissime, iniziano a dividersi tra modernisti e conservatori, mettendo l’uno contro l’altra genero e nuora, con la moglie e figlia rispettiva che vede il suo tranquillo menage sconvolto da questa improvvisa rivalità, dovendo per di più rendersi utile al responsabile del villaggio per il buon fine della simulazione elettorale. Assieme ai telefoni cellulari, a Internet e alla tivù arrivano anche i modelli e gli stereotipi delle serie americane, in cui per la prima volta avere una tivù rappresenta un vantaggio di status. Per cui un popolo di allevatori con il culto del numero degli armenti posseduti, per misurare il livello di benessere delle persone, si disfa di alcune mucche per acquistare un televisore. Mettendosi così in casa un perfido strumento che isola dai giochi comuni i più piccoli e ipnotizza gli adulti davanti allo schermo, per la prima esperienza in assoluto di propaganda elettorale. E quando un popolo non sa litigare per la politica, lo si addestra come si farebbe con un compito ginnico invitandolo a simulare le fazioni e, una volta formate, a inveire una contro l’altra, tanto per dare un’idea di come funziona la democrazia che, a questo punto, diventa assai peggiore della religione, come “oppio dei popoli”. Così, dovendo simulare la scelta di voto tra tre colori, il 90 percento dei potenziali elettori depone nell’urna il “Giallo”, il colore del Re del Bhutan! Eppure, un grande popolo dove gli anziani sono riveriti e rispettati non si fa facilmente soggiogare dalle lusinghe della modernità. Così, l’unico sherpa che ha un fucile nascosto sotto la legnaia da almeno un secolo, preferisce violare un patto di denaro abbondante, pur di onorare il debito morale contratto con il suo Lama, che gli chiede di donare gratuitamente l’arma inutilizzata.
Così come, per una graziosissima bimba del Bhutan, i suoi disegni e una gomma introvabile costituiscono quanto di meglio ci sia nella vita, assieme all’armonia e all’amore dei suoi genitori che l’imminente corsa politica sempre aver raffreddato e compromesso. Fuori dal finto seggio e dall’unico punto di ritrovo e di ristoro del piccolo villaggio, un anziano lima con pazienza, lungo tutto il periodo di inizio e di fine della prova elettorale, un piccolo tronco ad altezza d’uomo, per scolpire con un rudimentale attrezzo di metallo affilato il simbolo eterno della fertilità, molto ricorrente nella vita quotidiana della Pompei vesuviana. E sarà proprio in questo scambio simbolico tra vita e morte, tra fallo e fucile, che agirà il messaggio del film, in cui lo stupa di roccia, che bisogna oltrepassare dopo vari giri rituali attorno al suo perimetro, segna il vero confine tra Oriente e Occidente, tra chi sa guardare e vivere degnamente il mistero, e che invece l’ha rimosso con sospetto dalla propria vita, alla ricerca della pietra filosofale della Technè e del Progresso senza limiti. E, alla fine della giostra, ciascuno riceverà il proprio compenso: il Governo avrà la sua elezione simulata, mentre il Lama unirà attorno a sé il suo popolo in un’affascinante cerimonia piena di folklore e di misticismo, e il bianco yankee trafficante di armi si sottrarrà al suo castigo, proprio grazie alla funzione simbolica del seppellimento della sua bramosia per le armi, alla quale suo malgrado sarà costretto a partecipare.
Voto: 9/10
di Maurizio Bonanni