giovedì 18 aprile 2024
“Se la nostra vita fosse in ogni momento piena di senso, se il mondo fosse un giardino dove gli uomini, godendosi il sole, conversassero tutti amichevolmente, non ci siederemmo in un angolo a scrivere”.
In fondo, questa semplice considerazione del narratore de Il primo libro di Li Po – il poeta vissuto 1.200 anni fa (701-762 dopo Cristo) che costituisce insieme a Po Chui, Tu Fu e Wang Wei uno dei messimi classici della poesia cinese – potrebbe bastare a dar un’idea del senso della letteratura. Li Po ammirava i paesaggi ed era solito passeggiare tra fertili pianure e montagne boschive: “Su ponti oscillanti di legno, passava fra cime di pietra, vedeva strapiombi da cui balzavano le acque urlanti, mentre i banchi di nebbia s’arrampicavano sui fianchi frastagliati. O da alti valichi scorgeva, nelle pianure, laghi verde-azzurri e risaie allagate con le pozze d’acqua luccicanti al sole. Senza scendere dal mulo, a volte prendeva appunti o buttava giù una poesia. O fermata la bestia, schizzava a inchiostro l’impressione che uno scorcio di paesaggio gli faceva”.
Durante le sue passeggiate gli capitava di ricordare i versi che rappresentavano bene il corso dei suoi pensieri e il suo stato d’animo, versi dei maestri che lo avevano preceduto, come per esempio quelli dell’antico e sfortunato principe imperiale Tsao Chih, che recitano come segue: “Sotto l’olio fumoso delle lampade-sediamo in fila sulle lunghe panche-intorno ai galli da combattimento-che l’ali sbattono nell’aria placida”.
Un giorno, a Ngan-pu, Li Po vide per la prima volta il mare, “che gli parve desolato e solenne come la morte”; forse per questo preferiva girovagare nelle campagne o nelle città. Quando si aggirava per le strade di una città, gli piaceva annusare, quasi fosse un cane, “gli umidi odori delle buie trattorie dove gli artigiani, finita tardi la giornata di lavoro, bevevano birra giocando a carte e gridando fino a diventare sfrontatamente allegri o lacrimosi”. A volte Po desiderava persino “trovarsi in quelle strade, fra la gente che passava, non più come un uomo travolto dai desideri, ma come un uomo morto o una cosa: uno di questi alberi secolari, di questi pietroni lungo il ciglio, di questi putridi ponti sui canali: e lì, inerte e insensibile, nei secoli esser percorso dalle donne e dai vecchi che passavano, illuminato dal salire e dal calare del sole e della luna, dal colore del cielo sopra i tetti: dai rosa chiari delle albe, dai rossi scuri dei tramonti. Così inseguiva versi che paressero non d’un uomo specifico né di un’epoca, ma nati come dall’ottica quasi senza tempo e disincantata d’un cielo, d’un albero o d’una pietra”.
Li Po ebbe molte avventure amorose e qualche storia importante: dagli sfrenati amori adolescenziali con la serva Liu, ereditata dal nonno Li Ta, alla relazione proibita con l’affascinante cugina Peng, fino alla breve e tronca storia con madame Peonia; dal legame complesso con l’amico Tien Ti, a quello non meno complicato con l’ermafrodito Ni Shih, da cui aspettò anche un figlio che sarebbe potuto nascere unicorno o drago; da quello con la grassa e materna Ma Teh, che rischiò di uccidere durante un tenero amplesso, a quello con la bella mandarina dai grandi occhi blu, da cui poi lo divise un desiderio ingombrante e ostile. Ma nei periodi in cui era solito camminare da solo per strade silenziose, fra muri d’orti o di monasteri taoisti o buddhisti, talora pensava che questa solitudine sarebbe potuta finire solo quando “avesse trovato in una donna quell’unica che gli rendesse indifferenti le tante altre amabili al mondo”.
Il suo rapporto con la vita amorosa era comunque inseparabile da quello con la poesia. Una sera, soccorrendo un ubriaco, pensò che una “poesia raffinata si giustificava solo se l’individuo colto riusciva, in quel puro estratto, a dar voce a sentimenti di tutti, alle esperienze comuni: al piacere di quel sentirsi pago nell’ebbrezza e insieme perduto in un canto di strada, come quel sudicio popolano”. Solo in quanto partecipe del senso comune, Po si sentiva libero di fronte a ogni regola stabilita dai dotti suoi simili, e in fondo potremmo considerare questa sua propensione come il cuore della sua estetica, che emerge tra le righe di questo romanzo a più riprese, simbioticamente fusa con quella del suo autore.
Scrittore e filosofo, Vittorio Saltini ha curato dagli anni Sessanta agli anni Ottanta una rubrica di saggistica sull’Espresso, quando questo settimanale era probabilmente il più autorevole e significativo nel panorama editoriale italiano. Fondato nel 1955 da Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari, fu finanziato da imprenditori del calibro di Enrico Mattei e Adriano Olivetti, per poi passare al Gruppo Caracciolo. Durante i suoi anni d’oro L’Espresso poteva annoverare tra le sue firme alcuni tra i illustri intellettuali italiani: Alberto Moravia curava una rubrica di cinema, Paolo Milano di letteratura, Leo Valiani di storia; ma tenevano rubriche o comunque vi collaboravamo regolarmente anche Antonio Gambino, Sergio Saviane, Camilla Cederna, Enzo Siciliano, insieme a molti altri, mentre della redazione fecero parte, in tempi diversi, anche Mario Agatoni, Cesare Brandi, Manlio Cancogni, Giancarlo Fusco, Fabrizio Dentice, Bruno Zevi, Carlo Gregoretti, Cesare Zappulli, Gianni Corbi e Livio Zanetti, con gli ultimi due che poi ne furono anche direttori.
Oltre che un autorevole collaboratore di questo settimanale, Vittorio Saltini è stato però anche filosofo, docente di estetica all’Università di Sassari, e nell’ultimo periodo della sua vita stava portando a termine un libro di filosofia estetica destinato a consegnarci gli studi e le riflessioni di una vita. Nato a Lucca il 3 ottobre 1934, è morto nella sua città natale il 12 marzo 2024, dopo aver però trascorso molti anni dalla sua vita prima a Roma e poi a Sassari. Altri suoi romanzi, successivi a Il primo di libro di Li Po, sono Nel manto mio regale (Mondadori, 1982), e Quel che si perde (Feltrinelli, 2001).
La sua conoscenza della letteratura mondiale era vasta quanto sorprendente e la sua sensibilità critica di rara finezza. Tra i filosofi e i pensatori in genere i suoi preferiti, o almeno quelli da lui più studiati e citati, sono forse stati Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Friedrich Schiller, György Lukács e Max Weber. Alcune delle sue recensioni, sia filosofiche che letterarie, possono in parte essere ancora lette in una raccolta che s’intitola Questioni di estetica e teoria della letteratura (Carucci editore, Borgo aretino, Assisi, 1970), non del tutto irreperibile nelle librerie on line. Ciò che emerge dal complesso di questi articoli, la loro cifra estetica, può essere forse riassunto in maniera efficace dalla dichiarazione di poetica con cui si chiude Il primo libro di Li Po: “Penso che possa trarre il meglio da sé chi sappia seguire per quanto possibile gli esempi migliori. E con amore io sempre ricerco in Cervantes, Puškin, Keller, Tolstoj, la prosa epica che sa riecheggiare il nascosto ritmo della vita”.
Anche alla luce di queste brevi note culturali e biografiche, si può facilmente comprendere che Il primo libro di Li Po non è solo un romanzo, ma anche una sorta di Estetica in nuce, oltre che un manuale chiaro e sintetico di filosofia confuciana e taoista. Tra le due, pur avendo grande rispetto per la prima, Li Po, come del resto l’autore, sembra più incline alla seconda, tanto da produrre l’impressione che il suo maggior desiderio fosse quello di consentire al proprio cuore di trovarsi in perfetta solitudine e simbiosi con il Tao. Per riuscirci, era però necessario un difficile apprendistato, tanto morale quanto estetico, e trovare il coraggio iniziatico di assumersi, tanto nella vita come nell’arte, “la propria responsabilità”, che poi era anche una responsabilità verso il proprio tempo e l’arte del proprio tempo.
Come diceva il grande poeta Po Chu-i, “è rileggendo sempre di nuovo i medesimi libri che s’impara”, e a Li Po piaceva soprattutto rileggere, piuttosto che tenersi aggiornato con le novità letterarie. Era infatti convinto che la letteratura non esistesse per imprimervi i propri fantasmi, sebbene ognuno dovesse nella vita imparare a sue spese a trattare con i propri fantasmi. Per qualsiasi artista, sia che fosse un letterato sia che fosse un pittore, era importante invece avere dei maestri, esercitarsi a imitare il loro stile, anche per anni, o addirittura per tutta la vita.
La teoria estetica di Li Po non concerneva però solo la letteratura, ma anche la pittura, arte da lui praticata con buoni risultati per un certo periodo. La pittura doveva a suo avviso rifuggire dall’essere un’imitazione piatta e decorativa della realtà. Era preferibile “non imitare le cose come apparivano, ma cercare d’esprimere in modo essenziale la loro formazione, il ritmo della natura che, insieme, aveva generato e governava le cose e la mente”. In questo modo si poteva imparare ad assecondare l’unità armoniosa con cui la stessa natura operava. Li Po era infatti convinto che non la natura in sé, ma la natura insieme all’idea di essa “fossero il giusto oggetto e la meta della pittura”. Ma non solo era convinto che la pittura non dovesse essere una mera imitazione della realtà; credeva anche che non dovesse essere nemmeno l’espressione arbitraria e incontrollata di una propria pretesa creatività. Come mille anni prima aveva detto il filosofo Han Fei-Tzu, era troppo facile dipingere fantasmi: nessuno li aveva mai visti e “ogni pittore poteva sbizzarrirsi a capriccio”.
Li Po avrebbe voluto raggiungere anche nella pittura quella naturalezza che aveva raggiunto nei suoi versi. Pensava infatti che si potesse esprimere appieno anche nella pittura di paesaggio, così come nella poesia, quell’unità d’emozione e sapienza in cui si poteva realizzare la vita quando si era in armonia con la natura. Raffigurando un piccolo uomo immerso nel paesaggio si poteva per esempio dare forma ai conflitti più estremi ed “esprimere così la contrastata pace del cosmo, l’accordo d’armonia e disarmonia, la correlazione dei contrari” di cui consta ogni esperienza estetica, di yin e yang, di femminile e maschile, di notte e di giorno così come di ogni altra opposizione che attraversi l’esistenza umana.
Ogni tanto gli capitava però di voler cambiare vita, quasi non avrebbe voluto scrivere più per “lasciarsi vivere” in una campagna lontana. Una sera Meng Kuo, un pittore incontrato all’osteria dell’Oca selvaggia poi divenuto suo amico, riferì una sua disposizione d’animo verso l’amicizia in cui Li Po subito si riconobbe: “Per quanto creature con cui valga la pena di discorrere se ne incontrino sempre meno, io, come mi vedi – gli disse Meng Kuo – resto un uomo di conversazione e d’amicizia. ‘Chi conversando con gli amici ha parola sincera, se anche si sostiene che non ha cultura, io affermo ch’è colto’, diceva Confucio. Come un vero saggio, il meglio di me io lo regalo a chi m’ascolta davanti a un boccale”.
Un giorno Meng Kuo gli presentò il giovane Kung Shen, che era il figlio di un illustre governatore confuciano. Kung Shen era un giovane tozzo, ironico e taciturno, con cui Li Po avvertì subito una naturale affinità. Insieme andavano spesso a cena in una buia trattoria indiana foderata di stoffa rosso-scura, dove erano serviti da una sorta di guru olivastri e gentili; ma un giorno Shen gli propose di andare a cena da suo padre, che voleva conoscerlo. Questi, dopo le presentazioni di rito, avendo percepito le simpatie taoiste di Li Po, lo intrattenne con una lezione chiara ed esauriente sul confucianesimo: “Cortesia e umanità, diceva Confucio. Non serve a nulla proclamare in faccia al mediocre ch’è mediocre, e allo sciocco ch’è sciocco: basterà valorizzare tacitamente l’ingegno a scapito d’entrambi”. Per Confucio “i benpensanti erano i ladri della virtù”: chi governava doveva tener conto della tradizione, senza cercare di accattivarsi con espedienti retorici il consenso del popolo. Come sosteneva il grande poeta Po Chu-i, che era stato anche un illuminato governatore, nella poesia succedeva lo stesso: “Desideri e immaginazioni dell’artista, così come la sua abilità tecnica, si pongono al servizio della perfezione dell’opera: e anche la più nuova è inserita nelle tradizioni dell’arte”.
Rivolgendosi ancora a Li Po, il mandarino e governatore Kung poi aggiunse: “Voi taoisti dimenticate che per Confucio, al di là dell’autocontrollo e del governo, il fine dell’educazione è pur sempre il piacere e la felicità. Il problema è che per il gentiluomo l’armonia culturale e anche sociale divenga un bisogno, un piacere”. Se la sincerità e la cortesia erano le prime virtù confuciane, da esse doveva secondo il governatore nascere poi la terza e suprema, che era l’umanità, e cioè “il bisogno d’essere umani, non solo giusti ma buoni, la ricerca di comunità”. Per questo Confucio aveva ammonito che l’esortazione fondamentale ad amare gli esseri umani e a considerarli tutti come fratelli, di non fare agli altri ciò che non vuoi che gli altri facciano a te, non doveva essere vissuta come un dovere, ma come un piacere fondato sul bisogno d’armonia: “Sulla base dell’egoismo naturale, che Confucio mai rinnega, si può arrivare, con l’educazione alla completezza – disse il governatore – a un tal bisogno d’armonia che un gentiluomo può sacrificare anche la vita per testimoniare l’umanità e la giustizia”.
Per Confucio il governante era inoltre responsabile “di ciò che nel popolo non va”. Mencio, un filosofo cinese vissuto circa due secoli dopo, “ne trasse i corollari che, se il popolo è scontento, vuol dire che il governo è cattivo”. Mentre i taoisti e i buddhisti hanno insistito sulla rivelazione interiore, Confucio suggeriva l’esercizio dell’indagine critica e della propria curiosità, e voleva “che il governante fosse un letterato, avesse cultura storica e umanistica, prima che specializzata e pratica”. Una buona cultura generale, basata sullo studio dei classici, favorisce infatti l’indipendenza del pensiero e rende capaci di vedere i pro e i contro in ogni situazione. Per questo i grandi poeti come Po Chu-i e Wang Wei, o i grandi dotti come Han Yu, sono poi risultati i migliori governatori.
A questo punto, è necessario però chiarire che Po Chui-i, il grande poeta che potrebbe essere considerato come il contraltare psicologico di Li Po, è in realtà vissuto circa un secolo dopo di lui. In questo romanzo, infatti, la vita di Li Po è in buona parte immaginaria e solo quattro delle poesie con cui si conclude il libro sono veramente composte dal poeta, essendo tutte le altre creazioni o rifacimenti dell’autore. È inventato anche il principale maestro taoista incontrato da Li Po nel romanzo, e cioè quel tale Pa-ta-tzu di cui il narratore riporta ampi brani di due famose prediche, sebbene tali prediche almeno in parte esistano e siano riconducibili a Lao-Tzu. La prima e più famosa predica di Pa-ta-tzu è la Predica del sogno e dell’ombra, ed è composta per lo più di asserzioni lapidarie come le seguenti: “mentre sogni non sai di sognare. Solo dopo il risveglio sai d’aver sognato. Gli stolti credono d’essere desti, e di sapere se sono principi o pecorai. Verrà il grande risveglio, dopo il quale però non saprai che questo è il grande sogno. E anche ch’io dica che tu sogni, è un sogno”. Oppure, poco più avanti: “La scarpa giusta è quella che rende inconsapevoli del piede. Il cuore giusto riposa nella giustezza restandone inconsapevole. Perciò sii come non essendo. Stando sdraiato, vagabonda nell’inerzia, nelle lande sconfinate del paese della fertilità, aggirati nell’oro della noncuranza, monta sull’uccello della leggerezza per vagare nella vacuità, percorri le stanze interminabili del palazzo del non essere. Non c’è principio né fine. La morte non estingue la vita. Il saggio vive come se ogni creatura fosse senza fine. Aver paura della morte è fare il fanciullo che la sera non vuole andare a dormire; o come quello che s’è smarrito e non sa tornare a casa”.
La seconda predica famosa, detta la Predica dell’acqua, conteneva tra molti altri i seguenti insegnamenti: “Chi si vuole forte è debole, chi si vuole debole è forte. Chi si vuole grande è piccolo, chi si vuole piccolo è grande. Sii stupido, ignorante. Chi sa d’essere stupido, non è stupido del tutto; chi sa di sbagliare, non sbaglia del tutto. Nella discussione, impara di più chi viene sconfitto. Tieniti in basso. L’alto poggia sul basso. Il grande comincia dal piccolo. Tutti sanno vivere, io solo sono impacciato! Tutti sono aggraziati, io solo sono goffo! Tutti sono vivaci, io solo sono confuso! Tutti vedono bene, io solo sono miope! Tutti sono intelligenti, io solo sono stolto! Tutti sono indaffarati, io solo sono pigro! Emano un chiarore fioco, come luna calante! Sono come una barca che s’abbandona al mare!”. Un maestro taoista così rigoroso e schietto non poteva che avere un rapporto piuttosto critico, seppur rispettoso, anche verso il cristianesimo, riassumibile mediante quest’apologo: “un cristiano, che si riteneva caritatevole, si compiaceva di liberare le tortore dalle gabbie. Pagava bene chi gliene portava. Perciò la gente si faceva in quattro per catturarne. Se tu fossi meno pietoso, disse un taoista, soffrirebbero meno tortore”. Dopo aver ascoltato quest’aneddoto significativo, conversando con Pa-ta-tzu Li Po raccontò a sua volta di un boscaiolo che per sfuggire a una tigre, finito sull’orlo di un burrone, s’aggrappò a una liana, e rimase sospeso nel vuoto. “Guardando in giù, vide un’altra tigre che lo fissava. Guardando in su, s’accorse che un sorcio finiva di rodere la liana cui era appeso. Ma, vicino alla sua testa, notò una fragola selvatica, ben matura. Tenendosi alla liana, con l’altra mano colse la fragola. E la mangiò: era deliziosa”. Anche questa storiella, reperibile in molti testi di filosofia orientale, illustra abbastanza bene lo spirito del Tao, come del resto fanno queste altre secche considerazioni di Pa-ta-tzu: “Il Tao che splende non è il Tao. Il saggio è luminoso ma non abbaglia. La fama è un umiliare. Non conquista gli uomini chi li umilia con la sua bravura. Il saggio è insipido come l’acqua. Anche per Chuang-Tzu nessuna creatura è nobile o vile dal punto di vista del Tao, ma ognuno ritiene nobile sé e vili le altre. Tutti sono buoni, anche i cattivi: se lo sapessero, diventerebbero buoni. Il saggio non bada ai nomi”.
In un romanzo del genere, naturalmente non poteva mancare l’incontro tra Confucio e Lao-Tzu, il fondatore del taoismo. Quest’incontro sembra esserci stato davvero, ma secondo gli storici cinesi Lao-Tzu venne al mondo, cinquantatré anni prima che nascesse Confucio. Il famoso colloquio tra i due, secondo l’opinione generale, sarebbe avvenuto l’anno diciottesimo del re King (502 avanti Cristo): in quel tempo Confucio aveva quarantanove anni, e Lao-Tzu ne avrebbe avuti centodue. Ma siccome quest’ultimo non visse più di ottantaquattro anni, questa data è verosimilmente errata; è invece più probabile che l’incontro abbia avuto luogo nell’anno 521 avanti Cristo, quando Confucio aveva trentuno anni, anche se Karl Jaspers, riportando una tesi del famoso sinologo Alfred Forke, ritiene che l’incontro tra i due sia avvenuto quando Confucio aveva trentatré anni.
In ogni caso, quando nel romanzo Confucio si recò a fare visita a Lao-Tzu si mise a raccontargli tutto il suo sapere e a spiegargli i libri canonici: “Fammi il riassunto – gli chiese allora Lao-Tzu – non più di sei parole per piacere”. Confucio ci pensò un po’ su e poi disse: “Giustizia, carità, amare tutti, senza egoismo”. Il commento di Lao Tzu lo lascio però di stucco: “Uh, quanta roba! – disse infatti. “Amare tutti? Non è troppo vago? Senza egoismo? È un egoismo”. Confucio se ne andò così “a testa china, a passi svelti, la veste frusciante, fregandosi le mani sul petto, le lunghe maniche che dondolavano, le orecchie pendenti, le sopracciglia aggrondate, la bocca aperta senza saperla chiudere, la lingua incollata al palato senza saperla spiccicare. Ci pensò, ci pensò. Passarono anni. Alla fine della sua vita tornò da Lao-Tzu. “Ho capito!”, disse: “Il gallo canta, il cane abbaia, l’uccello vola, il pesce sta nell’acqua. Spingere una barca sulla terra è inutile. Ho capito!”. Lao-Tzu gli sorrise con affetto. “Ci sei arrivato, disse. Infatti. Chi studia, ogni giorno aggiunge; chi segue il Tao, toglie ogni giorno. Non farti cosa per le cose. Correggi te stesso, null’altro”.
(*) Il Primo libro di Li Po di Vittorio Saltini, Arnoldo Mondadori editore 1981, 332 pagine, 9 euro
di Gustavo Micheletti