giovedì 11 aprile 2024
Da Friedrich Nietzsche a Franz Kafka
Domani, dalle 10 alle 13, nella Sala dell’Istituto di Santa Maria in Aquiro, Piazza Capranica, 72, a Roma, per iniziativa di amici, il senatore Maurizio Gasparri e Giovanna Canzano, verrà discusso il libro di quest’ultima: Le radici ebraiche nel pensiero di Franz Kafka, Solfanelli Editore. Qualche considerazione. Forse dico l’ovvio, forse no: il fondamento della Bibbia o del Pentateuco o della Torah è a sua volta fondamento del complesso di Edipo e il complesso di Edipo è la stimmate di Franz Kafka. Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza però gli impone divieto di conoscenza ossia lo vuole mantenere ingenuo comunque inferiore al Padre. Ma nell’uomo vi è il serpente ossia il desiderio, sembra fuori dell’uomo ma fa presa dentro l’uomo quindi è nell’uomo. Ossia: diventare come il padre, anzi sostituire il padre. Edipo! Mediante la conoscenza del bene e del male Adamo raggiungerebbe Dio. Non forzo il testo: farebbe “conoscenza” della donna, avrebbe rapporti fisici con Eva, scopre l’erotismo. Infatti si coprono, Adamo ed Eva, le parti genitali. E nelle figurazioni vi è spesso tale copertura. Franz era ossessionato dalla visione della madre che abbraccia sensualmente il coniuge ossia il padre di Franz. Da quel momento è scacciato dal Paradiso ma senza Eva (la madre) e si considererà il più inetto risultato della natura, nato per negare se stesso, l’ultimo, il rifiutato, soprattutto da sé, il fallito riuscito. In questo ebreo e non ebreo, giacché vi è lacerazione, l’ebreo scacciato dal Paradiso senza risarcimento, errante, marginale, l’ebreo che conquista il paradiso in terra obbedendo al Padre. Se ne parlerà.
La scrittura di Franz Kafka è snella, magra. Non essiccata, agile, non periodi allungati, né attorcigliati, anzi brevi. Manifesta pensieri già confezionati, rifiniti, desertici in modo lucente, illumina il buio, lampi. Non è argomentativo, dimostrativo, asserisce nitidamente, quanto scrive è conclusione ultimativa di ragionamenti interni, ma il ragionamento sgorga dal sentire. E il sentire di Kafka è al vertice dell’esistenzialità. Non esistenzialista ma di chi vive nel sentire la condizione dell’esistenza. Nessuna prosopopea teorizzatrice del tipo Martin Heidegger, del tipo Jean-Paul Sartre, Kafka scrive quel che sente, e le frasi gli zampillano vivide perché attingono al sentire. Portato all’aforisma, alla sentenziosità dei profeti, alle “massime”, con espressività concisa e definitiva. Ha una qualità metaforica spontanea, sorgiva, non la ricerca, gli nasce. Sembra non sforzarsi. A suo modo è dionisiaco ed apollineo secondo la convinzione che Friedrich Nietzsche ebbe sui e dei greci, possenti tragedie in stile limpido. Ma Kafka somiglia a Nietzsche per altri motivi. Nietzsche ritenne l’uomo troppo minimo per sopportare il peso del nulla giacché se Dio è morto l’uomo non ha altra sorte che la morte, quindi per reggere, sostenere il nulla doveva, l’uomo, ultrapotenziarsi, scatenarsi, smediocrizzarsi potentissimamente e suscitare l’illusione che vale vivere vivendo massimamente. Kafka scarta questo illusionismo: per Kafka non vi è sanatoria, l’uomo è la nullità cosciente della nullità. E raggiunge la meta vertiginosa in tale consapevolezza. Nietzsche inventa il superuomo per rimediare la modestia dell’uomo inadeguato all’immensità di un universo senza Dio che lo opprime del suo vuoto che l’uomo deve colmare di vita. Kafka è concordatissimo al contrario, la nientitudine dell’uomo è realissima e in-scavalcabile. L’uomo deve superarsi nel sottouomo, l’uomo che si riconosce in nientitudine la risolve disprezzandosi.
Il nulla massimizzato, il superuomo del sottouomo. E Lui personalmente, Lui Franz, Lui, il figlio rimasto figlio, il gattino rifiutato, incapace a generare, a coniugarsi, non riesce a superare gli ostacoli. Con lacci perenni, intimi, inciampi ossessionanti. Ogni situazione, un ostacolo: non vi era vicenda che non lo contrastasse di barriere. E scriveva per sfogare la costrizione. L’ostacolo vissuto diventava liberazione nella scrittura espressiva, ma il nulla restava, non vi è compensazione, in Kafka, addirittura: poter scrivere che egli era il rappresentante massimo della nullità, il superuomo dei sottouomini, lo desolava maggiormente. Ecco a che si riduceva, ad un incapace a vivere, e scriveva anche per questo. Scrivere diventava insoddisfazione e dimostrazione che non riusciva a vivere! Non si dava uscita Franz Kafka. Aveva ragione. Non vi è uscita. Ma come dice Friedrich Hebbel: il topo in trappola mangia il formaggio. Vivere nonostante l’inspiegabilità della realtà e la minimità dell’individuo. Nietzsche grida: colma la vita e dimenticherai la morte ed il nulla. Franz Kafka colmava la vita di nulla, anzi voleva morire e spostare alla sommità la sua cosciente incarnazione che il nulla è irrimediabile. Stabilisce il superuomo del sottouomo, il sottouomo insuperato come incarnazione del nulla senza porte.
Un piacere di sofferenza a rifinire i lineamenti negativi della condizione umana. Accogliendone l’invocazione la Natura gli inflisse una malattia che lo contentò morendo ancora giovane. Ma fu il momento in cui Franz Kafka aveva a fianco una donna che pare lo animasse a vivere, Dora. Forse anche la morte gli venne al momento sbagliato. Una morte kafkiana. Un errore perpetuo. Soprattutto di essere Franz Kafka, l’uomo che non voleva esistere. Il rifiuto in persona. Kafka rinnova una questione antica quanto l’uomo: siamo effimeri, ignoriamo come mai esiste l’esistenza, la società ci dilania. Voglio potentemente vivere, afferma Nietzsche. Voglio potentemente scomparire: dice Kafka. Volontà di potenza. Volontà di impotenza.
(*) Le radici ebraiche nel pensiero di Franz Kafka, Collana Micromegas, Solfanelli Editore 2017, 112 pagine, 10 euro
di Antonio Saccà