mercoledì 10 aprile 2024
All’inizio Edward Hopper, newyorkese dei primi del Novecento, figlio di genitori letterati religiosi, dipinse tante di quelle illustrazioni pubblicitarie per sbarcare il lunario che, intervistato in tarda età parlando del suo successo, ancora ricordava. I suoi quadri non si vendevano. A un certo punto, però, finalmente e tutto d’un colpo, ha cominciato a vendere molto e una certa gioia e divertimento gli si sono stampati sulla faccia. Nel film di nicchia dal titolo Hopper – Una storia d’amore americana proiettato per pochi intenditori in alcuni cinema e per davvero pochi giorni, il regista Phil Grabsky sottotitola: “È il pittore che più di ogni altro ha saputo raccontare la solitudine, il silenzio, l’attesa”. Personaggio su Time, intervistato mentre teneva gli occhi in basso, in realtà ha detto chiaramente di non sentirsi tale perché il pittore è un “mezzo” e la pittura, i quadri, esprimono quello che chi li osserva vede, o vuole vedere. C’è il giovane Hopper che vaga per Parigi, disciplinato, e allo stesso tempo sorpreso e attonito dalla totale bellezza della città, innamorato pazzo di una donna che educatamente lo rifiuta sposandosi con un altro uomo – scusandosi molto di averlo reso triste – e c’è l’Hopper maturo, adulto, sposato e marito di Jo, anche lei pittrice forse ancora più talentuosa, che gli spiega l’utilizzo dei pastelli e delle tempere a olio, e che dipinge le case del Maine, o di Cape Cod, case che gli piacciono perché solide e ariose, di movimento e di bellezza. Mentre gli altri dipingono il mare – si tratta di luoghi meravigliosi sulla costa sopra New York – lui si concentra sulle case, tra cui una che sarà l’ispirazione e il set di un film del suo contemporaneo regista Alfred Hitchcock.
Come spesso accade la produzione più interessante avviene dopo i numerosissimi quadri che lo hanno reso famoso, in cui le persone sono ritratte sole – anche quando insieme rimangono distanti e soli – pensose, fuori dal tempo e dallo spazio in cui sono schizzate. Ecco il punto di passaggio verso la metafisica, ecco dove Hopper comincia a interrogarsi a cosa serva tutto, la vita, gli spazi di introspezione e/o di riflessione, gli sguardi persi nel sole, nella notte, nella natura, o in qualcos’altro. Viene da pensare a ritratti riguardanti lo straniamento, l’essere distanti e lontano da qualsivoglia contesto, ma non è questo. Almeno, non pare essere solo questo. Ecco che Hopper “arriva” alla luce, capisce di volere ritrarre la luce, precisamente quella del sole. È inquieto, sofferente, dice che dipingere è lungo, richiede tempo, che poi però l’ispirazione arriva sempre. Dolorosamente. Dice proprio così: dipingere è dolore. È in questo modo che comincia la più autentica produzione di Hopper, quella sulla luce, nelle stanze, dentro le case vuote, sui muri. Era stata “anticipata” ma solo adesso è “centrata”. Poi muore lasciandoci così, come deve essersi sentito lui stesso, al buio di ciò con cui avrebbe potuto illuminarci, e capire: la luce.
Interessante sebbene secondario il ruolo della moglie che nei diari di una vita è aspra contro il pittore, fino a dire durante un’intervista comune che è ingrato, specificamente parla di “egoismo che deve scarnificare e distruggere per sentirsi ancora più egoista, ancora più grande”. Indubbiamente non una unione riuscita, a sentire leggere le parole di Jo verso Edward.
di Guia Mocenigo