Il realismo di Raymond Aron

lunedì 15 gennaio 2024


La sociologia di Raymond Aron è sempre stata legata e dipendente dal contesto oggettivamente esistente. Basta leggere la prefazione del 1971 al suo saggio su Le tappe del pensiero sociologico, per capire come anche la giustificazione del metodo, macrosociologico e fondamentalmente altro dalle ricerche empiriche che a un certo punto avevano cominciato a colonizzare gli studi sociologici, volgesse sempre l’occhio all’altra parte, ovvero, all’esterno, al modo in cui oltre cortina, nei Paesi del socialismo reale, si guardava alla scienza sociale, in dubbio se marchiarla come “borghese” mentre, all’interno, alla nuova sinistra, alla quale riconosceva “il merito incontestabile di esprimere un’insoddisfazione e di lanciare al tempo stesso una sfida” alla sociologia ufficiale. Tutto ciò per dire che Aron va letto, studiato e spiegato come un intellettuale profondamente radicato nel suo tempo, nei suoi anni, che, per quanto lontani, sono stati decisivi per la determinazione dei criteri di comprensione del reale in sé, quel reale che Aron ha voluto innanzitutto comprendere, di contro a coloro che pretendevano invece di cambiarlo. Consapevole che la comprensione (Verstehen) è necessaria per una qualsivoglia decisione sul se e come eventualmente cambiare l’esistente, che spesso, ovviamente, non aspetta gli utopisti o i sognatori, rivoluzionari o reazionari che siano, per cambiarsi da sé. Il metodo di Aron nello studio delle cose umane può essere definito come al tempo stesso critico e fenomenologico e questo sin dai suoi primi lavori sulla filosofia della storia tedesca, quando osservava che la coscienza che riflette non può mai essere messa da parte rispetto all’oggetto che viene studiato, facendo essa stessa parte di ciò che si cerca di comprendere.

L’uomo, in altri termini, è radicalmente storico e lo è nella sua ontologia, non solo perché è nella storia; qui Aron riprende la tesi di Martin Heidegger sull’essenza storica del Dasein. Di conseguenza, la ricerca storica non poteva sottrarsi all’interrogativo di Immanuel Kant: come posso comprendere, ma anche entro quali limiti posso comprendere ciò che cerco di comprendere? La storia, per Aron, sin dai suoi lavori degli anni Trenta del Novecento, quando si rende conto, riprendendo Arnold J. Toynbee, che essa si è “rimessa in movimento” e che occorre farne parte abbandonando le ideologie, per nobili che siano, è parte dell’essenza dell’essere uomo: l’uomo è un essere storico e per questo, sia esso oggetto o soggetto o entrambe le cose, è sempre la dimensione storica a essere fondamentale. L’influsso determinante del pensiero di Wilhelm Dilthey è qui chiaro ed evidente, ovvero di quel metodo per il quale “non c’è più filosofia, ci sono studi positivi con intenzione filosofica”. Si tratta di un aspetto del pensiero di Aron che resterà vitale e fecondo in tutto il suo percorso di ricerca e ciò, in particolare, da un certo momento in poi, in quanto strumento per la critica delle ideologie che pretendono di fare a meno della storia o che persino immaginano una società umana post-storica. Da questo punto di vista la posizione di Aron, nonostante i suoi limiti, resta uno dei punti di riferimento più importanti per attrezzarsi culturalmente al fine di sottrarsi alla decadenza intellettuale, etica, morale e politica che sta trascinando la civiltà occidentale verso l’irrilevanza e la sudditanza.

(*) Le tappe del pensiero sociologico di Raymond Aron, Mondadori 1989, 600 pagine, 20 euro

(**) Il testo sopra riportato è un brano tratto dall’introduzione al libro su Raymond Aron scritto da Agostino Carrino ed edito da Ibl Libri nella collana Classici contemporanei. Il volume verrà presentato il prossimo giovedì 18 gennaio alle 18 presso la sede di Milano dell’Ibl. Insieme all’autore interverranno Vincenzo Ferrari (Università di Milano), Angelo Panebianco (Università di Bologna), Dominique Schnapper (membro onorario del Conseil constitutionnel) e Serena Sileoni (Università Suor Orsola Benincasa e Ibl).


di Agostino Carrino