I corazzieri

martedì 2 gennaio 2024


“I corazzieri, rappresentanti della continuità della Patria nel passaggio dalla Monarchia alla Repubblica”. Durante quella sorta di “limbo istituzionale” che si venne a creare dopo l’8 settembre 1943, con il trasferimento repentino della Famiglia Reale da Roma a Brindisi e successivamente a Salerno, il Palazzo del Quirinale rimase nella condizione di sede vacante, fino alla Liberazione di Roma. La bandiera sabauda rimase sul Torrino del Quirinale fino all’11 settembre 1943, quando venne ammainata per scongiurare rappresaglie da parte tedesca. Dopo il Congresso di Bari del Cln, che Radio Londra aveva definito “il più importante avvenimento della politica nazionale dopo la caduta di Mussolini”, il 19 febbraio 1944 Enrico De Nicola ebbe un drammatico colloquio col Re a Ravello – presenti la Regina e il ministro della Real Casa – formulando la proposta previamente accettata dai generali anglo-americani e dai rappresentanti delle forze antifasciste, di nominare il Principe di Piemonte Luogotenente generale del Regno. Ciò per superare le resistenze del suo interlocutore, restio ad uscire di scena, e per consentirgli – al contempo – di non doversi vedere costretto ad una vera e propria abdicazione. Ciò permise, nel rispetto letterale dello Statuto, di traghettare – in modo tendenzialmente indolore – l’Italia post-fascista alla democrazia, prima ancora che il popolo fosse chiamato a pronunziarsi sulla futura forma di Governo, attraverso il Referendum istituzionale. Tramite la Luogotenenza era stata salvaguardata la dignità formale del Re, nei confronti del quale De Nicola aveva configurato una “responsabilità oggettiva”, nel momento in cui dovette chiedergli sostanzialmente di farsi da parte, proprio attraverso l’espediente tecnico-giuridico in parola.

La sofferta determinazione venne ufficializzata dal sovrano nel suo proclama del 12 aprile 1944, comunicando egli l’intendimento di abbandonare la vita pubblica e di nominare suo Luogotenente generale il figlio Umberto, a decorrere dalla data dell’effettivo ingresso degli Alleati in Roma. Il giorno successivo alla liberazione della Città Eterna da parte degli Alleati, con Regio Decreto 5 giugno 1944, numero 140, Vittorio Emanuele III si risolse pertanto alla nomina luogotenenziale, seppure con una formula che si prestava all’equivoco. “Il nostro amatissimo figlio Umberto di Savoia, Principe di Piemonte, è nominato Nostro luogotenente generale. Sulla relazione dei ministri responsabili, Egli provvederà in nome Nostro a tutti gli affari dell’amministrazione ed eserciterà tutte le prerogative regie, nessuna eccettuata, firmando i Reali Decreti”. Malgrado la pericolosa ambiguità, Umberto sgombrò il campo da ogni ulteriore fraintendimento in occasione della cosiddetta prima Costituzione provvisoria, il Decreto-legge 25 giugno 1944 n.151, da lui siglato come Luogotenente del Regno, statuente – tra l’altro – che dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali sarebbero state scelte dal Popolo italiano, il quale a tal fine avrebbe eletto a suffragio universale, diretto e segreto, un’Assemblea Costituente per deliberare la nuova Costituzione dello Stato. Con la nuova configurazione della Luogotenenza, venne meno la responsabilità politica del Principe Umberto verso il Re, con la correlata possibilità dell’eventuale revoca della Luogotenenza da parte di quest’ultimo.

Contemporaneamente, era avvenuta una “novazione” della fonte del potere Luogotenenziale: non era ormai più il Sovrano, bensì il Governo, espressivo del volere dei partiti sottoscrittori del “Patto di Salerno”, la fonte in parola. Essendo rientrato a Roma già subito dopo la ricordata liberazione, Umberto si era insediato al Quirinale, che idealmente “aveva riaperto i battenti”, in realtà mai stati chiusi, in quanto anche durante l’assenza della famiglia reale dall’8 settembre 1943 al 4 giugno 1944, erano rimasti alcuni funzionari ed impiegati del Ministero della Real Casa, in una nebbia giuridico-amministrativa. Il Governo di Salò ignorò infatti a lungo l’Amministrazione della Real Casa, e non pretese dai suoi dipendenti quel giuramento di fedeltà che era stato imposto, viceversa, agli altri pubblici dipendenti sotto giurisdizione repubblichina. Circa le vicissitudini del Reale Palazzo, dal diario del conservatore del Quirinale, commendatore Francesco Villa, risulta che i due ufficiali delle SS Tenente colonnello Herbert Kappler e tenente Karl Schulze ignorando il cartello di divieto di ingresso timbrato dalla Ambasciata tedesca, il 12 febbraio 1944 vi erano entrati compiendo un’accurata ispezione, ripetuta quattro giorni dopo con l’asportazione di vari oggetti, vini, liquori e generi alimentari: una vera e propria razzia. Il 23 marzo, dopo l’attentato di Via Rasella – riporta ancora il diario – essendo state ospitate al Quirinale alcune donne ferite entrate da Porta della Pagliara, irruppero dei soldati tedeschi e reparti della Milizia repubblicana, minacciando rappresaglie Il 24 il personale della Real Casa ivi rimasto, fu tenuto per due ore sotto la minaccia delle armi, mentre vennero compiuti atti vandalici dalla soldataglia nazi fascista, che costrinse a consegnare le armi i corazzieri.

Per tragico destino, in quello stesso giorno veniva fucilato alle Fosse Ardeatine il corazziere Calcedonio Giordano, Medaglia d’oro al valor militare, facente parte della formazione partigiana costituita dal generale Filippo Caruso con dei militari sbandati dell’Arma. Il 5 giugno1944, fuggiti i tedeschi, entrò al Quirinale Eugenio, Duca di Ancona, e vi rientrarono anche numerosi funzionari e Dame di Corte che avevano finalmente potuto abbandonare i loro rifugi, accolti dalla la presenza rassicurante dei corazzieri e dei carabinieri armati a presidio del Palazzo. L’8 giugno sopraggiunse il Luogotenente Umberto, atteso dai corazzieri in alta uniforme e dagli staffieri in livrea di gala. Dopo l’ingresso al Palazzo, il Principe sabaudo, ora investito dei nuovi poteri luogotenenziali, nominò l’avvocato Falcone Lucifero nuovo ministro della Real Casa, la cui configurazione amministrativa venne assai snellita rispetto al lungo periodo (1900-1944) legato al nome del Re-Soldato. Quasi due anni dopo – il 9 maggio 1946 – con decisione inattesa e comunque tardiva ai fini delle sorti della Monarchia, il Re si risolse ad abdicare in favore del figlio, che peraltro sarebbe divenuto Sovrano per un brevissimo arco di tempo, dati gli esiti del Referendum istituzionale che si sarebbe svolto da lì a breve, donde l’appellativo poi datogli di “Re di maggio”. La scelta di Vittorio Emanuele III suscitò delle proteste da parte di quanti, al Governo, la ritennero una violazione dei termini della tregua istituzionale, a partire dal guardasigilli Palmiro Togliatti.

Umberto veniva ad assumere il titolo di Re non più in base ad un’investitura concertata con le forze politiche, come era avvenuto con Luogotenenza, ma secondo le regole dinastiche, in virtù delle quali la fonte del nuovo potere era tornata ad essere quella del Sovrano uscente. Nell’arco di 2 anni, dal 1944 al 1946, c’era stato, di fatto, un turbinio giuridico-costituzionale che avrebbe potuto diventare materia di studio per i cultori degli studi giuspubblicistici; ma il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, in quello stato di nebulosità inquietante, con il mai sopito rischio di una guerra civile, seppe mantenere il consueto equilibrio. Il 10 maggio dette lettura durante il Consiglio dei ministri, della missiva indirizzata dal nuovo Re al Governo, nella quale era riaffermata la volontà di osservare gli impegni presi in precedenza. Pertanto nulla cambiava rispetto alla pregressa situazione che Umberto aveva gestito da Luogotenente del Regno. In pari data, quest’ultimo, su proposta del presidente del Consiglio dei ministri, sanzionò e promulgò un articolo unico, nel quale dispose che i decreti da emanarsi dal capo dello Stato, sarebbero stati intestati al nome di “Umberto II Re d’Italia”, così come tutti gli atti giudiziari ed amministrativi che andavano firmati in nome del medesimo.

Dopo l’esito del Referendum del 2 giugno in favore della Repubblica, con la vittoria di quest’ultima, il 13 successivo Umberto II salutò i dipendenti della Real Casa convenuti alla Vetrata ed i corazzieri, schierati al centro del Cortile d’Onore al comando del Tenente colonnello Riario Sforza, mentre nei pressi dell’uscita erano disposti i granatieri di Sardegna, di cui negli anni Trenta il giovane Principe aveva comandato la Brigata. Allorché la vettura Reale con lo stendardo sabaudo uscì dal Quirinale, corazzieri e granatieri gridarono – per l’ultima volta – “Viva il Re!”. Tutti gli appartenenti alle forze armate erano già stati sciolti dal giuramento di fedeltà alla Corona, ma non da quello alla Patria. Al Torrino fu ammainato il tricolore sabaudo: quella mesta cerimonia di commiato, segnata da intensa commozione generale, costituì il simbolico passaggio dalla Monarchia alla Repubblica, di cui i Granatieri ed i corazzieri furono i primi testimoni ed eredi. I Granatieri, costituenti la più antica specialità dell’Esercito italiano, erano nati il 18 aprile 1659, allorché Carlo Emanuele II, Duca di Savoia, aveva creato il “Reggimento delle Guardie”, assurgendo nel corso della storia a livello di Brigata. È ignoto ai più, che durante il “Governo di Salerno”, la Real Casa, nel periodo intercorrente tra il 22 novembre1943 ed il 10 dicembre 1945, per la sicurezza ed i compiti di guardia e di rappresentanza, poté avvalersi di un Battaglione di granatieri in luogo dei corazzieri e dei carabinieri, che erano stati coinvolti nelle drammatiche vicende seguite all’armistizio dell’8 settembre.

I corazzieri, considerati l’evoluzione storico militare degli arcieri di Amedeo VII di Savoia (XIV secolo), acquisirono una più netta identità genetica del reparto giunto sino ai nostri giorni, il 7 febbraio 1868 come scorta d’onore alle nozze del principe Umberto con la principessa Margherita di Savoia a Firenze. Detta scorta era composta da uno squadrone di 80 carabinieri, che il successivo 24 settembre ebbe la denominazione di carabinieri di Guardia del re, che già dall’anno successivo iniziarono ad essere comunemente chiamati in ragione delle loro sfavillanti armature corazzieri. Alla fine dell’Ottocento, furono aggregati allo squadrone in discorso anche degli allievi carabinieri, selezionati previo requisito di “bell’aspetto ed ottima condotta”.  Nel corso della storia dall’Unità all’oggi, furono protagonisti di numerosi episodi di valore: dall’aver sventato l’attentato di Giovanni Passannante contro Umberto I (1878), all’aver scongiurato il successivo di un tale Antonio D’Alba contro Vittorio Emanuele III (1912,), agli atti eroici compiuti durante la Prima guerra mondiale, di cui sono testimonianza le medaglie d’argento al Valor militare conferite alla memoria di Albino Mocellin e di Italo Urbinati, entrambi corazzieri-aviatori. Nella Seconda guerra mondiale, i corazzieri combatterono valorosamente su vari fronti e presero parte alla Resistenza. Il corazziere Alcide Pucci ebbe la medaglia di bronzo al valor militare. Con Decreto presidenziale del 19 giugno 1946, numero 3, venne abolito il Ministero della Real Casa, i cui compiti amministrativi furono transitoriamente affidati ad uno speciale commissario, nominato dal presidente del Consiglio, nella persona del consigliere di Stato Pietro Baratono. Il 28 successivo fu eletto a titolo provvisorio presidente della Repubblica Enrico De Nicola, il quale preferì esercitare le sue funzioni nei locali di Palazzo Giustiniani invece che al Quirinale, sia per rispetto verso l’antica Istituzione monarchica, che per coerenza con quella austera concezione della funzione ricoperta, che lo indusse a rinunciare ad ogni onore.

Durante la sua presidenza, i corazzieri confluirono provvisoriamente nel 3° Squadrone carabinieri a cavallo. Il padre del diritto pubblico italiano, Vittorio Emanuele Orlando, nella seduta del 22 ottobre 1947 all’Assemblea Costituente, aveva rilevato l’esautorazione più completa del futuro capo dello Stato repubblicano da parte del legislatore, dato che venivano trasferiti i poteri che prima erano pertinenti al capo dello Stato monarchico e per la cui esiguità era stato ritenuto un ‘Re travicello’, ma si trasmettevano in una misura ancor più ridotta. La Costituzione della Repubblica entrò in vigore il 1 gennaio 1948, alla qual data il Consiglio dei ministri in seduta straordinaria deliberò che il Palazzo del Quirinale divenisse la sede ufficiale della Presidenza della Repubblica. Al pomeriggio giunse nella piazza omonima lo squadrone dei Corazzieri, che al momento indossavano l’uniforme dei citati carabinieri a cavallo, seguiti pochi minuti appresso da un battaglione dei granatieri di Sardegna. Aperto il portone principale, i due reparti entrarono nel Cortile d’Onore e si scambiarono gli onori militari, mentre suonava l’inno di Mameli e il tricolore svettava sul Torrino. All’interno del Palazzo gli stemmi sabaudi vennero gradualmente rimossi dalle porte, dalle finestre, da vari soffitti, con squadre di decoratori, muratori, falegnami, tappezzieri, vetrai ed artigiani vari, febbrilmente impiegati per cancellare gran parte delle vestigia del cessato Regime.

In merito alla soppressione del Ministero della Real Casa, l’istituto della Dotazione fu ritenuto di tale importanza, da essere inserito nell’articolo 84 della Costituzione, che espressamente recita: “L’assegno e la dotazione del presidente sono determinati per legge”. La legge ordinaria con cui sarebbe stata data attuazione al dettato costituzionale, fu preceduta da vivaci dibattiti parlamentari. In particolare, contro il disegno governativo presentato il 15 giugno 1948, mirante all’automatico passaggio dei beni mobili ed immobili già della Corona nell’erigenda struttura, il 1° luglio 1948 si levò a parlare al Senato il Francesco Saverio Nitti. Questi stigmatizzò innanzitutto la scelta della sede in sé, poiché il Quirinale, già “luogo di Re e di Papi”, non avrebbe dovuto ospitare la Repubblica; inoltre rilevò l’inopportunità di costituire una struttura che, per dispendio di uomini e di mezzi, appariva in stridente contrasto con le ristrettezze interne del Paese ed eccessivamente fastosa, se comparata con la modestia praticata dai capi di Stato di altri Paesi occidentali. Il 31 luglio 1948 il relatore della Commissione referente della Camera sul disegno di legge in questione, onorevole Ezio Amadeo, volle porre in risalto la diversità che la figura del nuovo capo dello Stato repubblicano assumeva rispetto al passato, con la necessità di una frugalità di costumi aderente al comune sentire ed al nuovo spirito.

Conseguentemente erano stati ritenuti bastevoli per la residenza del presidente e per la sede della relativa Amministrazione, il Palazzo del Quirinale e la Tenuta di Castelporziano. In tale ottica di sobrietà, fu altresì ritenuta congrua la somma di 180 milioni, quale stanziamento annuale con cui si sarebbe provveduto alle spese di rappresentanza ed alle liberalità. L’assegno personale del capo dello Stato, da corrispondere in dodici mensilità, avrebbe dovuto essere fissato nella misura di 12 milioni annui. Sarebbe stato istituito il Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, cui per ragioni d’ordine politico e costituzionale andava riconosciuta piena autonomia “quale organo indipendente, per quanto concerne la sua organizzazione e funzionalità interna”, fermo restando il carattere pubblicistico della sua amministrazione. Il 6 agosto nel corso della discussione al Senato al Nitti che riteneva peraltro eccessiva anche la somma di 180 milioni, rispose indirettamente il sen. Emilio Lussu, asserendo che la Repubblica, frutto di tanti sacrifici, doveva avere il necessario lustro nel suo massimo organo: “Il popolo – soggiunse – per la sua massima rappresentanza e per il suo massimo rappresentante, potrà fare anche dei sacrifici, ma intende esprimere la grandezza degli ideali che lo animano”. Il 9 agosto 1948 entrò in vigore la Legge 1077, sulla determinazione dell’assegno e della Dotazione del presidente della Repubblica e sull’istituzione del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, tuttora vigente con alcuni aggiornamenti.

Tale organo costituzionale venne a realizzare la conversione in forma repubblicana del vecchio Ministero della Real Casa, con un assai più ridotto numero di dipendenti. La nuova forma non comportò – salvo quanto sopra riferito – radicali modifiche all’identità storico-artistica dei prestigiosi Saloni: a titolo di esempio, si può citare quello detto dei corazzieri (già Sala regia papale), nel quale è dato tuttora ammirare nel soffitto il grande stemma sabaudo, cui alla fine dell’Ottocento erano stati aggiunti al di sotto degli affreschi secenteschi, gli emblemi delle città dell’Italia unita. Quanto agli uffici della nuova Amministrazione, Einaudi ne nominò Segretario generale il consigliere di Stato Ferdinando Carbone, che si avvalse prevalentemente del personale proveniente dal disciolto Ministero della Real Casa, il che consentì di non disperdere preziose esperienze professionali, acquisite da quanti conoscevano assai bene il funzionamento della struttura operante nell’ambito della dotazione. I più anziani ebbero degli incentivi economici per il collocamento a riposo; mentre il resto del personale risultante in esubero rispetto alle minori esigenze della nuova Amministrazione, fu trasferito ad altri Organi dello Stato, sicché dagli originari 801 elementi di provenienza sabauda, si passò alle 432 unità di ruolo nel periodo einaudiano.

In ordine alla continuità o meno dei poteri del capo dello Stato dal periodo regio a quello repubblicano, si ricorda per sommi capi che nel più generale ambito dei rapporti tra di esso e il Governo, le attribuzioni presidenziali sono assai più limitate di quelle del Re, il quale era titolare del potere Esecutivo (articolo 5); era fonte della giustizia, che era amministrata in suo nome (articolo 68); partecipava alla formazione delle leggi mediante un atto di vera e propria approvazione (articolo 35). Nella Costituzione repubblicana – viceversa – il capo dello Stato non è più il vertice dell’Esecutivo, non possiede un potere autonomo di approvazione delle leggi; la giustizia è amministrata in nome del Popolo italiano. L’11 maggio 1948 era stato eletto presidente della Repubblica Luigi Einaudi, con il quale il Palazzo del Quirinale tornò ad essere abitato dal Capo dello Stato e dalla Consorte. In pari data i carabinieri del Terzo squadrone ripresero le tradizionali uniformi ed assunsero la nuova denominazione di Squadrone carabinieri guardie del presidente della Repubblica. Circa un mese dopo, il 2 giugno nella ricorrenza della Festa della Repubblica, detti carabinieri tornarono ad indossare elmo e corazza, con i nuovi simboli della Repubblica: sulla corazza il monogramma reale fu sostituito da una testa di leone, mentre sull’elmo un trofeo d’armi prese il posto dell’aquila sabauda, ed una stella a 5 punte sostituì lo scudo sabaudo. Il 1° ottobre 1961 il reparto assurse al rango di Gruppo squadroni carabinieri guardie del presidente della Repubblica, e quattro anni dopo (1 agosto 1965) fu creato il Comando carabinieri guardie del presidente della Repubblica, cui venne concesso lo stendardo nel 1978. Altra significativa tappa delle accresciute benemerenze del corpo, fu la consegna ad esso del vessillo tricolore il 14 dicembre 1978 da parte del presidente Pertini.

Lo Stemma Araldico concesso al Reggimento corazzieri con Decreto del presidente della Repubblica del 24 dicembre 1986 a firma del presidente Francesco Cossiga, reca il motto Virtus in periculis firmior, ed è formato da uno scudo bipartito, con a sinistra tre campi dai colori di tre città in sequenza capitali d’Italia: azzurro per Torino, argento per Firenze e rosso per Roma. Vi è sovrapposta un’aquila nera al centro dello scudetto ovale rosso, con le lettere maiuscole “R” ed “I”, nel segno dell’ideale continuità istituzionale al servizio della suprema Carica dello Stato. L’aquila nera è – come è noto – l’emblema della Casa Savoia, laddove mentre il monogramma “RI” è quello della Repubblica italiana. A destra sono riprodotti i simboli caratteristici dello stemma araldico dell’Arma dei Carabinieri. Lo Stendardo presidenziale che compare nello stemma, è stato modificato il 4 novembre 1990, allorché questa speciale Unità venne elevata a rango reggimentale, come Reggimento carabinieri guardie della Repubblica, che acquisì un incremento di organico ed una nuova autonomia amministrativa, in quanto passò alle dirette dipendenze della Presidenza della Repubblica. Fu per merito del presidente Oscar Luigi Scalfaro, che il Reparto in parola assunse il 24 dicembre 1992 la denominazione di Reggimento corazzieri, conferendosi in tal modo dignità giuridico formale alla lunga tradizione consuetudinaria, che aveva accompagnato con tale nome il reparto noto in tutto il mondo come “biglietto da visita “della più alta Istituzione della Repubblica. Tale Reggimento dipende gerarchicamente dal Comando generale dell’Arma ed operativamente dal Consigliere per gli Affari militari del presidente della Repubblica, circa i servizi militari di guardia e di onore; mentre è sottoposto al prefetto direttore dell’Ufficio per gli Affari interni, in ordine ai servizi di protezione e sicurezza del capo dello Stato dentro e fuori dal Quirinale, nonché circa la sorveglianza degli immobili della Presidenza della Repubblica.

Il servizio di scorta ordinaria viene svolto su potenti moto Guzzi California vintage XL, appositamente sovradimensionate per questi speciali centauri; mentre quello di alta rappresentanza avviene – nel segno della tradizione storica – su cavalli di superba possanza (in genere irlandesi) e di stazza superiore alla media (circa 170 centimetri al garrese). I corazzieri vengono reclutati fra i carabinieri in possesso di elevati requisiti morali, disciplinari e di servizio, nonché di una statura fisica di almeno 190 centimetri (ai tempi di Einaudi ne bastavano 180, ma la popolazione generale era più bassa dell’attuale). Per una costante efficienza psicofisica, l’addestramento quotidiano comprende lo studio di materie professionali, esercitazioni a carattere militare, equitazione, arti marziali, ginnastica, paracadutismo, uso di armi da fuoco. Nel Reggimento operano a livello specialistico anche dei tiratori scelti, degli artificieri, dei fabbri, dei maniscalchi, dei sarti. Durante le “Visite di Palazzo”, costantemente aperto al pubblico a partire dalla presidenza di Sergio Mattarella, la presenza di controllo e di sorveglianza discreta dei corazzieri in abiti civili di austera eleganza, è identificabile agli occhi del profano, soltanto dalla loro statura, che non può passare inosservata. La tradizionale corazza è sempre oggetto di curiosità da parte dei passanti che si soffermano con sguardi di ammirazione innanzi a Porta Giardini, dove è stabilmente assegnato con turni di rotazione, un corazziere di guardia, immoto nella maestosa uniforme di rappresentanza, caratterizzata da una splendente corazza d’acciaio finemente lavorata, da un elmo argenteo corredato da lunga coda di crine, con sottogola e cimiero dorati, per un peso totale di circa 10 chili. La sede di questa unità particolare, è la caserma intitolata al maggiore Alessandro Negri di Sanfront – nome dell’ufficiale che aveva guidato la gloriosa carica di Pastrengo – sita in una parte dell’ex Monastero di Santa Susanna, a Roma.


di Tito Lucrezio Rizzo