martedì 24 ottobre 2023
Al Teatro Quirino di Roma va in scena fino al 29 ottobre lo spettacolo La coscienza di Zeno con un bravo Alessandro Haber, per la regia di Paolo Valerio. Chi è, in fondo, Zeno? Forse, all’apparenza, soltanto un Borghese piccolo piccolo: figura tipica dell’inetto protetto dal suo stato borghese. Un personaggio retoricamente eletto dal suo autore triestino, Italo Svevo, a rappresentare l’uomo contemporaneo, abulico e infelice, incapace di assumersi responsabilità nelle occasioni piccole come in quelle più grandi. Persino scegliersi una sposa gli riesce cosa particolarmente ostica e impraticabile, delegando di fatto a terzi e al caso la donna alla quale dichiararsi. Tutto sta a decifrare se, sul serio, le nevrosi di Zeno siano anche quelle di tutti frequentatori di questo universo occidentale viziato, ebbro di benessere materiale e sempre più a corto di significati valoriali; incapace ormai di porsi le domande che contano sull’esistenza e sulla sua conclusione. Grande protagonista occulta, per Noi occidentali che l’abbiamo angosciosamente rimossa, è Nostra sorella morte che, come ben intuì San Francesco, ci siede in grembo dalla nascita e ci terrorizza ogni giorno, proprio per la sua assoluta leggerezza antigravitazionale.
L’infelice Zeno Cosini ne è perseguitato, tanto è vero che la regia sceglie di mettere in scena il Zeno giovane e quello vecchio, che interagisce nelle scene topiche suggerendo al suo gemello regredito di cambiare intonazione della voce, o sostituendosi direttamente a lui per interloquire con gli stessi personaggi ingaggiati dal giovane. Come ricorda Haber all’inizio della rappresentazione, La coscienza di Zeno è un diario autobiografico pubblicato per vendetta dal suo psicanalista, che non aveva tollerato l’interruzione dell’analisi da parte del suo paziente Cosini. Zeno, non solo è il protagonista del romanzo e, quindi, della sua riduzione teatrale, ma è anche narratore di sé stesso attraverso la figura di Zeno vecchio, claudicante e malfermo sulle proprie gambe, che fa passi da gambero per l’intera rappresentazione, cadendo pesantemente sulla sedia a rotelle che il giovane ha cura di fargli trovare sempre lì a un passo. Ma non si tratta di un autentico diario, bensì di una sorta di racconto della propria malattia derivante dall’inettitudine, che diviene una vera e propria patologia psicologica, provocando a Zeno angosce, senso di insoddisfazione costante, paura incontrollabile e un conflitto costante con l’ambiente che lo circonda. Crede ciecamente in un medico che gli predice i più tremebondi malanni e si fa guidare da un padre che non stima.
Tutto ciò che prova Zeno nello spettacolo passa per gli sguardi, gli atteggiamenti provocatori, il biasimo e l’innamoramento senza condizioni di ben quattro donne, la madre e le sue tre figlie, tra le quali sorelle Zeno deve scegliere la sua sposa, sbagliando per l’appunto quasi tutte le mosse, perché incosciente della sua Coscienza, tanto per ironizzare. Ama Ada, la primogenita e la più bella delle tre sorelle, e le si dichiara, ottenendo un rifiuto, in quanto la donna è innamorata del disinvolto Guido Spencer. Quest’ultimo finirà in rovina per essersi fidato di suo cognato Zeno e aver costituito con lui una società per azioni, e morirà per davvero, avendo sbagliato la dose di veleno per simulare un suicidio ed estorcere così denaro alla famiglia. Rifiutato da Ada, il nostro indeciso a tutto tenta con la sorella Alberta, ottenendo un nuovo rifiuto. Allora, al non deciso non resta che la povera, tenera e fedele Augusta, la più bruttina delle tre. E anche qui, pur essendo uno scapolo e un donnaiolo impenitente, Zeno si adatta alla dolcezza muliebre di sua moglie, accettando passivamente le regole del matrimonio. E, ovviamente, all’interno di queste ultime ci sta che un uomo perbene abbia un’amante che lo ama sinceramente, ma nei confronti della quale non riesce a distinguere il proprio sentimento, che rimane sempre in un limbo affettivo in cui è ricompresa la stessa Augusta.
Come tutti i nevrotici, Zeno ha un sistema, per così dire, di appoggio mentale rappresentato dal fumo della sigaretta, con l’eterno ritornello di “questa è l’ultima, poi smetto”, ma intanto quel suo fumare nevrotico gli fa prendere tempo prezioso per rinviare una decisione in atto. Come pure l’amante è oggetto di quello sfogliare ossessivo la margherita dell’infedeltà, per cui “questa è l’ultima volta che ci vediamo”, puntualmente smentita e rinviata a seguito della fissazione del prossimo appuntamento; finché l’amante innamorata si stancherà di lui e sposerà un altro. Al fondo, il ritornello “dopo questa smetto” è un’occasione buona per darsi piacere, aspirando con voluttà fino in fondo il fumo di quella (mai) ultima sigaretta. Una sorta di “Yo yo” ante litteram, un continuo Sali e Scendi, dall’entusiasmo alla disillusione di sé stesso, emblematico di chi come Zeno manca di volontà ed è incapace di perseguire fino in fondo un proposito. Ed è la sua copia vecchia, che ha ormai capito se stessa, ad autodiagnosticarsi la malattia della sua volontà, quest’ultima inseguita e mai raggiunta per inettitudine, esaminando e smascherando con poderosa autoironia gli artifici dell’inconscio. E, come in ogni analisi freudiana che si rispetti, anche la morte simbolica del padre rimane sospesa, malgrado Zeno ne odi la sua maturità con la quale gli è impossibile confrontarsi.
Sicché, sfugge risolutamente anche da questa dissacrazione, rifugiandosi nel conformismo più ortodosso, in cui ipocritamente si adegua alle rigide convenzioni borghesi, per cui al padre si deve il sentimento filiale di amore e di affetto. Salvando così le eterne apparenze. E suo padre, come se avesse capito la pusillanimità del figlio, lo schiaffeggia erroneamente in punto di morte, ultimo colpo di frusta al suo ronzino perché almeno si metta al mezzo trotto. E naturalmente, Zeno interpreta in modo errato per il resto della sua vita questa circostanza, ritenendola intenzionale, per aver lui desiderato la morte di suo padre, cosa che non riesce ad ammettere nemmeno con sé stesso. Ma lo spettacolo interroga anche tutti noi, invitati a chiederci “Com’è lo Zeno che è in me?”.
di Maurizio Bonanni