venerdì 20 ottobre 2023
I miti sono racconti, narrazioni al di là della verità o menzogna, spiegano, chiariscono aspetti della realtà della quale danno una narrazione, una risposta narrativa. Non si pongono il problema della falsità, c’è quella narrazione, basta così. Le narrazioni sono legate a vicende essenziali della vita, della condizione umana: il passaggio delle stagioni, quello che accade dopo la morte, se vi è un dopo morte, se è possibile scampare la morte, se gli dei sono invincibili e così via. Spesso drammatiche queste narrazioni, anzi perfino tragiche, i greci furono insieme i più positivi affermatori della vita e i più estremi consapevoli delle situazioni rovinose: la lotta contro la morte, la lotta contro il fato, l’invidia degli dei, l’incesto, lo stupro, l’uccisione del padre, dei figli, di fratelli. Di tante narrazioni mitologiche ne rileveremo alcune, significative della civiltà greca e da allora per l’umanità. Il mito di Sisifo. Sisifo era un re che odiava la morte, Thanatos, e una prima volta che Thanatos si presenta per condurlo agli inferi, lo ubriaca e scappa. La morte non si ritrae, torna a catturarlo, e riesce a trascinarlo nel suo regno ma Sisifo non ha avuto le celebrazioni mortuarie (scaltramente) e chiede al sovrano degli inferi di rimandarlo sulla terra per dare celebrazione. Sulla terra Sisifo dice alla consorte, Merope, di non celebrare le onoranze, in tal modo non sarebbe in condizioni di tornare negli inferi.
A tal punto interviene Zeus (Giove) e Sisifo subisce dannazione all’inferno (la morte) ma è anche obbligato a trarre in cima un macigno che ricade ed egli deve riportare in cima eternamente. Dunque, combattere la morte è uno sforzo vano! La Morte finirà con il vincere. Non basta, anche la vita è una fatica perduta, un perpetuo fare che ricomincia sé stesso e che ha per senso il fare per fare. Ciascun mito ha molteplici significati, non sempre palesati e spesso dovuti all’interpretazione. Il mito di Sisifo può essere inteso anche quale determinazione dell’uomo di agire (spingere il macigno) nonostante la morte, come a dire: so di morire ma agisco lo stesso. Ma si può intendere: siamo sconfitti sempre, nella vita e nella morte. Diverso nettamente il mito di Prometeo, il quale trae il fuoco agli dei e lo consegna agli uomini, con il fuoco gli uomini possono lavorare i metalli, cuocere, edificare, il che suscita avversione negli dei che vorrebbero l’uomo debole e mortale. Sicché Prometeo viene anche egli dannato, incatenato, un’aquila gli divora il fianco, che rinasce perché venga ancora divorato.
Le pene, si noterà, non solamente ferocissime, ma con l’eternità del supplizio. Il fuoco e Prometeo resteranno simboli incancellabili dell’orgoglio operoso dell’umanità. Il mito di Persefone è naturalistico e forse religioso, iniziatico. Demetra ha quale amatissima figlia Persefone, che viene nello sguardo del Dio degli Inferi, Ade, se ne innamora, la trascina nel sotto terra dove Egli impera. Demetra disperatissima conosce infine il rapimento e chi ha rapito. Implora Ade, ottiene che metà dell’anno Persefone rivedrà la luce e la madre. Il mito segna le stagioni: caldo solare, freddo e buio invernale. Quando Persefone sosta nell’Ade la natura si spoglia di fruttificazione e calore, riavendoli allorché torna sulla terra. Sarebbe la spiegazione delle stagioni. Altro intendimento, la sorte dell’anima, nelle tenebre, nella solarità. Nella vita, nella morte. E il mito di Atlante, che regge sulla schiena il tutto, perché mai questo asservimento gravosissimo? Ma certo, si rivoltò a Zeus e si fece milite di Kronos, sconfitto si gode la pena, eterna. Tantalo, per aggiungere, un ladro degli dei, tra gli dei, e assolutamente fuori dei limiti, spudorato, lo danna la vista di beni che non riesce a prendere.
Infine, ma i miti sono a galassia, il più dolente, Orfeo, il musico, il cantore, colui che muove l’animo di chi lo ode, uomo, bestia, ama Euridice riamato, ahimè. Euridice si avvelena casualmente, muore. Il canto di Orfeo diventa il pianto, inconsolabile quanto Demetra, Orfeo, ed anch’egli cerca di ottenere il ritorno alla vita di chi ama, un meraviglioso ritrovato di quella civiltà, se amiamo alla perdizione recuperiamo chi è morto. Ed ecco, Orfeo scende negli inferi: suona, canta, seduce tutti, potenza unica dell’arte, la Grecia, l’immortalissima Grecia, la potenza totale dell’arte. Ade e Persefone cedono. Euridice torna alla vita, tanto amata fanciulla. In questo viaggio Orfeo non deve volgersi, e infatti Orfeo procede, Euridice lo segue, procede, procede. E se Euridice non gli sta alle spalle? Dubita, lo sventurato, si gira, ahimè, Euridice vanisce, Orfeo impazzisce. Torna alla vita senza vita, odia, spregia le donne, maltrattate lo uccidono. Non bisognava dubitare dell’amore, e dell’amore di Euridice.
Vicende fantasiose, tentativi di comprensione, all’estremo, i greci non avevano mezzi termini, si spingevano alla vertigine del dolore e della gioia, ma come un oceano che ha terremoti al suo interno e la superficie limpida, distesa. È il portento della civiltà greca, la massima pienezza nella apparenza della serenità, una serenità con dentro i terremoti. I greci erano superficiali per profondità (Friedrich Nietzsche), dove il termine “superficiali” va inteso espressivamente, capaci di esprimere il tragico come un cristallo che dà luce prismatica. Questa conciliazione del tragico con il limpido non è stata raggiunta da un’altra civiltà. È la civiltà “classica”, perfino William Shakespeare sembra enfatico (e comunque straordinario) rispetto ai greci. Insomma e al dunque. Svolgo finché ne avrò idoneità piccoli corsi di letteratura antica e contemporanea. Di quella contemporanea spesso mi sembra che sarebbe onesto tacere, di quella classica che sarebbe onesto accrescerla. La cultura ha versante utilitaristico, l’altro esistenzialistico-espressivo. Bisogna far comprendere, giovani e non giovani, che senza l’aspetto esistenzialistico-espressivo l’uomo non è uomo. L’uomo utilitaristico funzionale sarà sostituito dal robot intelligente. L’uomo esistenziale, con i grandi interrogativi: origine, fine, senso, e con la capacità espressiva, l’arte, lo stiamo uccidendo noi. Perché, che male esiste a continuare a essere umani? Se avessi scelto ruoli pubblici, dedicherei alla civiltà classica il primato, di schianto. Per continuare a essere uomini. Non è un’esagerazione, la cultura classica contiene l’umanità dell’uomo.
di Antonio Saccà