mercoledì 20 settembre 2023
A quanto pare, dominano gli anniversari di scrittori “ideologici”. Quando anche sono ideologismi rabberciati o confusetti, ma che rumoreggiano e sono di facile comprendonio, che so: Tizio fu contro la società dei consumi, Sempronio si dette da fare nella parità di genere e a favore della varietà degli orientamenti sessuali. Il che dal fare arte vale una scopa. Ma imperversa questa fusione, eredità dell’artista impegnato oggi accresciuto dalla potenza della comunicazione.
Ne viene fuori che gli scrittori i quali si dedicarono alla “forma”, ossia alla efficacia espressiva, sono in cantina, rinchiusi. Il cinquantesimo anniversario della morte di Carlo Emilio Gadda riceve un silenzio desertico. Ne rievoco la presenza, anche perché ha degli aspetti originali. Credo che questo ricordo di Carlo Emilio Gadda interesserà in modo particolare. Scrivo di un uomo che ho ben conosciuto… non conoscendolo. In verità, non è che non l’abbia conosciuto, ma l’ho conosciuto in modo così stravagante, irregolare, che dire “ho conosciuto” o “non ho conosciuto” sono espressioni inadeguate.
Se la memoria non fallisce, vi era una cerimonia per la morte fulminea, inattesa, di Giacomo Debenedetti. Debenedetti aveva ruoli molteplici, impegnato con la casa editrice Mondadori. Un docente universitario, sebbene non di ruolo, come si diceva e si dice. Prima della morte era stato giudicato “non idoneo” al “ruolo” da una commissione di docenti, perché non “scientifico”. Giacomo sapeva che quel concorso rappresentava l’ultima speranza di giungere all’ordinariato. E ne patì molto. Ebbe un colpo al cuore, nelle festività di termine d’anno in casa di Rafael Alberti. Eppure, alquanto irrigidito, poggiato a una parete, mi continuava a parlare.
Alla sua morte, il figlio Antonio mise in capo la kippah: intervenne tutta l’intelligenza di sinistra e non solo. Giacomino veniva considerato un saggista letterario raffinato, capace di cogliere i meandri psicologici di un Proust, di uno Svevo, addentrato persino nella psicoanalisi. Io avevo recensito su Paese Sera un libro di Debenedetti, che mi conosceva per il mio saggio su “Nuovi Argomenti”. Oltretutto vivevo con Elsa De Giorgi, attrice e scrittrice, amica di Giacomo, della moglie Renata e dei figli, Antonio ed Elisa. Si che c’era un doppio modo incontrarci.
Carlo Emilio Gadda torreggiava nella sala in cui avveniva la cerimonia funebre di Giacomo Debenedetti. Alto, diritto, non magro ma non appesantito, robusto. Un uomo che contiene un corpo consistente, montanaro o da campagnolo incivilito: il largo faccione con tratti ben scanditi, ampio naso, larghi occhi, fronte che spogliava la testa di capelli e appariva vasta. Un’aria inquieta, con movenze del capo e dello sguardo quasi a sorvegliare ogni lato.
Si girò verso di me che mi giravo verso di lui, incrociammo lo sguardo, muovendo qualche passo l’uno verso l’altro, fermandoci. Tornammo al nostro posto, a seguire la cerimonia. Cosa ci aveva fermato? Il timore di un saluto in una manifestazione funebre? No. Semplicemente il fatto che ci stavamo venendo incontro… senza conoscerci. Una spontaneità che arrestammo, rendendoci conto che, dicevo, non ci conoscevamo.
Dire che non ci conoscevamo non costituisce la verità. Io sapevo benissimo che quell’uomo corpulento era Carlo Emilio Gadda. Ed egli di certo mi aveva visto e aveva saputo di me perché, l’ho detto, il testo su “Nuovi Argomenti” mi aveva messo in risalto. E allora? E allora, era il caso di salutarci conoscendoci senza presentarci? Evidentemente, era il caso. Ma per una vicendevole idiosincrasia, non so se dovuta, ripeto, alla cerimonia, non ci salutammo.
Gadda continuava a starsene irrigidito, e guardingo. Lo notavo anche involontariamente, giacché mi stava parallelo, a qualche metro distante. Era dunque realmente come mi avevano detto i suoi amici, e molto di più negli anni a venire mi avrebbero detto: un uomo sospettoso, inquietissimo, capace di voler chiarire per ore una parola detta, sempre sull’orlo dell’equivoco, del timore di aver sbagliato e di spiacere. E, perciò, con una forzata cortesia, un’esagerata educazione formale, come è tipica dei nevrotici ossessivi che si colpevolizzano e “bloccano” la loro aggressività con ritualismi rigorosi, tanto più rigorosi quanto maggiore è l’aggressività trattenuta. Che aveva da temere Carlo Emilio Gadda? Scorgendolo attento, con gli occhi mossi ai lati, era palesemente un uomo che concepiva gli sopravvenissero eventi sfavorevoli. Mentre il corpo, alto, ben piantato, ritto dimostrava vigore e salute. Poi quel viso largo, esposto, nudo, e gli occhi vasti, chiari, apprensivi ne svelavano la fragilità, il timore di incombenze rovinose, quasi che gli altri e il reale non gli fossero benevoli.
Si girò ancora dalla mia parte e mi guardò, ma stavolta non accennò verso di me, anzi lo sentii indurito, ostile. Forse, non avendolo io salutato o accettato di essere salutato, mi riteneva un nemico? Così facilmente? Così irragionevolmente? A mia volta immaginai che egli sapesse che io non avevo scritto di lui nel mio saggio, e quindi si era frenato dal salutarmi e mi guardava ostilmente per tale motivo. Che facevo, diventavo di mentalità gaddanesca pure io, e da una pulce costruivo un diluvio?
Mi rimaneva impresso quanto egli aveva narrato sulla guerra, la Prima guerra mondiale, e peculiarmente sulla morte del fratello, un’estirpazione, un tirar via di colpo le radici dell’esistenza. La morte del fratello fu per Gadda la morte in vita della vita. Credo che “dopo” egli sopravviveva, ma la ragione di vita gli si era amputata. Accade che una persona nel mare degli uomini sia costitutiva. Gadda risiedeva nel fratello. Del resto, nelle sue memorie di guerra, più che dirlo lo fa sentire. Chi sa, quel suo sguardo errante di timori forse veniva dalla persistenza di quella notizia. Un giorno, in un momento preciso di un giorno, gli avevano detto che il fratello era morto. E da quel giorno ogni dolore era possibile.
Si girò verso di me, cercai il suo sguardo, ma negli occhi di Gadda non c’era sguardo. Mi aveva dissolto, non voleva avere a che fare con una persona non amica. Certo, io interpretavo Gadda, e stabilivo una successione di stati d’animo: buona disposizione, delusione, avversione, negazione. In effetti, i suoi occhi ebbero uno sguardo vuoto, a vuoto, come se rinunciassero a vedere una realtà che lo intristiva. Lo colsi, poi, a tenere le mani con le braccia stese, il volto chinato, gli occhi stretti, solo, ben stagliato.
Quante me ne raccontavano e raccontarono gli amici di Gadda sul “Gran Lombardo” o l’ingegnere come veniva chiamato! Come “personaggio” favoloso, oggetto di favoleggiamenti soltanto Eugenio Montale gli si confrontava. Si era stabilito a Roma. Per quanto i massimi critici lo esaltassero, specie Gianfranco Contini, e i massimi scrittori lo apprezzassero, non era né celebre né benestante. Lo accennavo: un ingegnere di nascita lombarda che lavorava anche in Paesi stranieri. Poi andò alla Rai.
Gadda, credo fosse umiliato dal non essere un uomo dal sicuro reddito e per non aver nome considerato esclusivamente in cerchie di qualità ma sparute. E questo lo esponeva a rapporti inadeguati. Una sera, in un ricevimento, un funzionario della Rai disse a Gadda che il giorno successivo si doveva presentare in ufficio presto o qualcosa del genere, in tono da superiore. Alberto Moravia, presente, si adirò e con la voce acutissima che gli sorgeva nei momenti d’ira sgridò il funzionario, che non doveva permettersi di usare quel modo con uno scrittore quale Carlo Emilio Gadda.
Tuttavia, non bisogna dire che Gadda non si vendicasse, di suo. Lo faceva con la scrittura: la sua timidezza, la ritrosia, nell’esistenza immediata, venivano scardinate e irrompeva a getto sulla pagina tutto il fegatume bilioso che lo intossicava vivendo e lo restituiva al prossimo, sul prossimo, con un linguaggio escrementizio, vomitoso, deformante, storpiatore, azzoppato, carognoso, spregiativo, che non aveva riguardo per madre e padre, duci e borghesi, tutti sconciati come in quadro espressionista o lo sghimbescio di Picasso.
Gli uomini dovevano pagare d’aver terrorizzato Carlo Emilio Gadda. E se nella vita si faceva manierato quanto un giapponese, nelle pagine si rifaceva inventando un linguaggio che non lo distanziava dai cinquecentisti maccheronici e certo con un sarcasmo non goliardesco, anzi rancoroso. Il piccolo borghese trova in Gadda un’epica viscerale, la rivalsa dalle subordinazioni con il turpiloquio, le invettive. È l’impotenza che si risarcisce con lo sparlare.
In mano a Gadda non vi erano che le parole, ed egli ne fa impiego irriverente, beffardo, blasfemo, schizzinoso, cloacale, deformante, urinoso, disossativo, ammucchioso. Si tratti del Duce e del fascismo, in “Eros e Priapo”, del clima verbale romantico, segnatamente del Foscolo, della figura materna, in “La cognizione del dolore”, o della corruzione della media borghesia romana, in “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, tutta una ricostruzione gaddesca della lingua patria, non ricorrendo al gergo borgataro come Pier Paolo Pasolini ma con innesti sincopati tra parole, ne viene una espressività personale, umorale, tutta spregio e vendetta.
Un vaso da notte pieno. Gadda colse il velleitarismo verboso del piccolo borghese, colui che si rifà con le parole, dandogli voce e un’invenzione linguistica che, oltretutto, fu una via di scampo alla questione del trovare forme espressive e non ridurre l’arte alla comunicazione. Fu un uomo dolente, con qualcosa di insanabile. Lo amavano, lo stimavano, si profittavano dolcemente del suo candore, specie in fatto di donne. Gliene combinavano e poi le raccontavano. Goffredo Parise e Giulio Cattaneo ne sapevano tante, le mille e una notte. Un personaggio, una vela in balìa del vento dell’esistenza il quale trova la sua difesa, il suo porto nella parola, come una pietra scagliata contro l’aria.
Conobbe il cosiddetto successo con “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”. Morì ottantenne, nel 1973.
di Antonio Saccà