Mario Luzi, tra il silenzio e Dio

martedì 18 luglio 2023


Con Mario Luzi ci scambiammo molte lettere. Cercherò, le ritroverò, forse. Grafia minuziosa, come zampe di mosca, molto regolare, diritta nel rigo, chiara, come era del resto come persona. Ci siamo conosciuti perché, insieme a Carlo Betocchi e Geno Pampaloni, reggeva una collana di poesie per la Casa Editrice Vallecchi, prestigiosissima e collana non meno prestigiosa. Avevo inviato un mio testo, e mi avevano risposto che sarebbe stato pubblicato. 1965. Per questa ragione conobbi Mario Luzi, Carlo Betocchi, Geno Pampaloni. E, con loro, qualcosa del mondo culturale di Firenze, dove del resto avevo studiato anni prima. La Firenze della cultura che conobbi nel 1965 era diversa da quella conosciuta nei miei anni universitari, la Firenze comunista. Firenze manteneva una cultura non superiore a Roma, Milano o Torino ma schifiltosa, difficile. Gli intellettuali fiorentini o toscani in genere potevano essere meno creativi, meno propositivi, meno conosciuti, meno clamorosi di quelli romani, milanesi, torinesi, ma in quanto a spirito critico e a puzza sotto il naso non avevano eguali. Passare al vaglio dei “fiorentini” significava ricevere il giudizio più risicato che uno scrittore potesse ottenere. E Mario Luzi, tra costoro, era risicatissimo.

I fiorentini scrivevano in punta di penna, centellinavano, mantenevano l’animo asciutto e superbioso connaturato, da Padre Dante a Machiavelli. Parsimoniosi nelle parole, magri nei giudizi, scarsamente esibizionisti, almeno i toscani che conobbi. Impartivano austerità nel grande rumore della cultura che già cominciava a tuonare nei mezzi di comunicazione. In qualche maniera la letteratura di consumo trovava nei toscani un ostacolo essenziale, un confine invalicabile. Erano inguaribilmente “antichi”. La prosa d’arte come si diceva, era eminentemente toscana e se qualcuno come Vasco Pratolini dirozzava alquanto avendo una sua specifica fluvialità. I poeti toscani erano quanto di più stringato esistesse. Luzi, di costoro, era il notabile: di poche parole, di opinioni caute, ma studiate, di intimità riservata e leale. Se era amico era proprio amico senza strafare, con manifestazioni parsimoniose. Un cultore delle piccole verità quotidiane, forse le più importanti e le più difficili: se scriveva nelle lettere “con affetto”, ero certo che voleva dire “con affetto”. Non una formula. Ebbi con Luzi un’indimenticabile amicizia, sia quando mi pubblicò il volume, La conclusione, con una prefazione che ricordo per la compostezza lusinghiera nei miei confronti, sia poi quando mi scrisse una prefazione a un altro mio libro di poesie, La parola, pubblicato con l’Editore Spirali, molti anni dopo. Sia quando mi diede in anteprima il saggio su Giovanni Pascoli, per la rivista che dirigevo, Opera aperta, ed era testo compilato per non so quale prestigiosa ufficialità.

Mario Luzi era un uomo alto, volto stretto alle tempie e agli zigomi, il naso avanzato in eccesso. Pare che fosse stato attraente da giovane. Lo conobbi e manteneva la snellezza del passato, gli occhi attenti, alquanto talpeschi, scrutatori. Viveva con la moglie Elena in una piacevole abitazione. Il figlio non lo conobbi. Quando mi recavo a Firenze ero ospite suo e conversavamo per giornate. Esperto della cultura italiana, delle riviste specialmente, conosceva tutti, pur essendo uomo di scarsi viaggi. Insegnava letteratura francese. Legatissimo a Carlo Bo e a Leone Piccioni. L’amicizia tra Luzi e Bo aveva dell’umoristico. Bo era uomo quasi muto: se diceva in un’ora tre parole credo si considerasse ciarliero. Appoggiato con il mento tra le mani al suo bastone guardava gli altri parlare più che ascoltarli. Alto, di bell’aspetto grave e signorile. Luzi dinanzi a Bo sembrava un ragazzino magretto e sbarazzino. Anche lui, dal canto suo, non è che parlasse molto, ma nei confronti di Bo era un fiume. Io tra questi due risparmiatori di parole mi trovavo nella condizione o di parlare continuamente o di starmene zitto. Uno spettacolo di sordomuti. Con Bo vissi un’esperienza clamorosa. Dopo la pubblicazione del libro di poesie curato da Luzi mi recai a Venezia e mi accompagnai a Carlo Bo, in un ristorante. Ci raggiunse Emilio Isgrò, poeta sperimentalissimo e delle mie parti siciliane, il quale mi aggredì perché a suo concepire io ero apprezzato da poeti canonici e da critici accademici come Carlo Bo. Un Carlo Bo che se ne restava taciturno, astratto, cagnone, il mento sul bastone, infine se ne andò, il giorno dopo volle sapere.

La disputa rispecchiava una tensione culturale reale. I fiorentini erano conservativi e rigorosi nel mantenere la dignità dell’espressione, la qualità, e, anche, la vitalità della tradizione. Luzi era considerato un ermetico, in modo peculiare. Nel senso di un impasto di metafore da comprendere, di un verso non esplicito, ma che manteneva la qualità lirica. Le sue prime raccolte erano lievi, smaterializzate, sfiorava la realtà. In quegli anni, invece, avveniva in Italia un passaggio da questo tipo di poesia, ermetica e lirica, a una poesia con intarsi di lingua straniera, con la dominanza del prosaico sul lirico, addirittura con vere e proprie narrazioni in versi che difficilmente potevano considerarsi poesia. Inoltre, si imponeva la poesia impegnata nelle lotte sociali. Di “queste” novità il mondo fiorentino non si curava, al momento. Si trattasse di Luzi, di Piero Bigongiari o di Carlo Betocchi, i fiorentini erano fedelissimi alla lingua italiana e al primato della lirica. E, soprattutto, avevano delle venature religiose, se non proprio di credenti, il che li isolava nel panorama sperimentale del tempo. Lo sperimentalismo del genere detto non ebbe vita facile, non vi è poeta che sopravvisse anche se dal punto di vista dell’ideologia vi è chi ancora lo prende in considerazione. Né, d’altra parte, la cosiddetta “poesia civile”, impegnata, sopravvisse.

Luzi aveva un lungo percorso di compositore di versi di lavorata espressività. Come accennato, la poesia cominciò a disfarsi quando si gettò nel piatto ogni formulazione, non in maniera grandiosa come poteva essere un barocco rigenerato, ma con scadimento delle parole, mancanza di tattilità verbale, musicale, di cadenze quasi che il semplice scrivere significasse poetare. Questo allentamento di briglie se da un lato poteva contribuire a strappare alla poesia i paludamenti classicheggianti, anche ermetici, la ridusse a un andamento qualsiasi. A non essere poesia, insomma, a fondersi con il parlato. Del resto lo scopo ultimo di un certo sperimentalismo fu quello di abbattere i confini tra comunicazione ed espressione, quasi che l’espressione fosse frutto di chissà quali aristocrazie e torri d’avorio, laddove l’espressione è un dono per i lettori, per la gioia della “forma”. Ma gli andamenti pseudo democratici della nostra epoca hanno portato questa confusione, a far ritenere la genericità banalizzata la quinta essenza della scrittura. Certo, si poteva scadere nel “parlato” proprio per evidenziarne il dominio devastante, come in Thomas S. Eliot, o, nel teatro, Eugène Ionesco. Ma è l’esatto contrario della banalità non riconosciuta come tale.

Uomini come Luzi colsero la derelizione inespressiva, la fluvialità rilassata, terra terra, anche di Pier Paolo Pasolini. Per non dire di un Edoardo Sanguineti, di un Elio Pagliarani: un semplificato scorrere di parole, nessuna cadenza, non musicalità, la scelta verbale non esiste più, nessun rapporto tra espressione ed emozione, si scrive con lo stesso ritmo della morte e dell’amore. Ripeto: fosse stata scelta postmoderna, come si dice, ossia la terribile acquisizione che non c’è più espressione e differenza valutativa, saremmo ancora nell’arte. Ma nei casi detti non c’è espressione, ossia non c’è l’espressione della non espressione. Al dunque, occorreva vivere la condizione della poesia nell’epoca del postmoderno, quando la poesia esprime la morte della poesia, in tal modo riacquistando poesia. Gli sperimentali fecero morire la poesia ma non ne espressero la morte, risuscitandola. Da tutto ciò Luzi non si tenne a parte, anzi: lo espresse, cioè fece poesia dell’impoetico. Dopo anni di ermetismo assai montaliano, con l’impiego insistito del “tu”, il ricorso a luoghi, circostanze di natura, tutto figurato, e una visione tipicamente montaliana del fuggire di uomini e cose, di svelamenti momentanei e dissolti sull’enigmatica esistenza, Luzi, proprio sul terreno per eccellenza antiermetico e sperimentale rese poesia la prosaicità e con i migliori risultati. Cosi la raccolta Nel magma, dal ben riuscito uso del “parlato”. Con gli ultimi esiti della sua lunga operosità, e con tecniche di versi tra il sentenzioso e il disarticolato, come nel caso del poemetto dedicato a Simone Martini, in particolare Ispezione celeste, Luzi esprime con la più esplicita nettezza quel “bisogno di Dio” che gli fu immedesimato tutta la vita, un Dio che sfocia nell’Essere, che non è un Dio precisabile, ma la possibile risposta alla domanda se oltre a noi esseri vi sia, almeno, l’Essere. Ma in tali richieste abbiamo come sempre il silenzio, taluni lo intendono silenzio di Dio, ma poiché è silenzio netto è verosimile che sia silenzio e nient’altro, inesistenza di chi dovrebbe rispondere ed al quale chiediamo. A quanto pare l’unico interlocutore dell’uomo è o dovrebbe essere l’uomo. Ci perdemmo, con Mario Luzi, per mie vicissitudini. Quando lo incontrai, anni successivi, non fu come era stato.


di Antonio Saccà