lunedì 10 luglio 2023
Perché nel suo tour italiano, partito dagli Arcimboldi di Milano, poi Lucca, poi Perugia, infine Roma, Bob Dylan non ha cantato nemmeno uno dei suoi brani iconici: Blowin’in the wind (1963), Mr. Tambourine Man (1965), o Hurricane (1976), dedicato al pugile Rubin “Hurricane” Carter, condannato ingiustamente per un triplice omicidio nel ‘66 e scarcerato solo nel ‘85 a causa di una sentenza “basata su motivazioni razziali”? Perché se lo avesse fatto “io sarei morta”. Non parlo solo di me, mi riferisco ai tanti della mia età, che hanno affollato i concerti sold out, per cui “il menestrello del rock” rappresenta la cronologia e l’essenza di una generazione nei fatti storici, nella saga delle emozioni, nelle evoluzioni musicali.
Mi sia concesso il personalismo, sento di avere anche una ragione particolare. Quando mio figlio, Jacopo, è morto nella notte tra il 10 e l’11 aprile 2010, qualche giorno dopo trovai un Cd tra le sue cose, in cui erano raccolte le famose interpretazioni di Bob. Messo il Cd a suonare, in Mr. Tambourine Man mi parve di vedere non solo lui, mio figlio tra la vita e l’altrove in quei giorni che susseguono il decesso, ma tutti quelli che trapassano. “Ehi mister Tambourine, suona una canzone per me, non ho sonno e non ho un posto dove andare…”. Me lo spiega la signora sui sessanta, che accompagna il marito collezionista di vinili: “Sarebbe stato straziante, per noi e per lui”, dice garbata come mi avesse letta dentro. E un’altra che ascolta aggiunge: “Dylan non è stato mai un nostalgico, ha sempre parlato di futuro”. In una delle ultime e rare interviste egli ha detto: “Siamo preoccupati per il futuro tecnologico, ma è un problema nostro. I giovani nascono nel tempo che trovano, quello è il loro mondo, non hanno la concezione del passato e delle differenze”.
Siamo in fila, due ore prima dell’inizio, per l’operazione sigillo telefonini, poiché l’altra trovata di Dylan, oltre a un repertorio senza malinconie, sono i concerti “phone free show”. Cioè con i cellulari sigillati in una custodia, affinché non accadano le tempeste di lampi e di immagini postate che sono diventate parte integrante dei concerti. Nessuna ripresa, nessuna foto, nessun post. Se si ha la necessità di ricevere o fare una chiamata si va all’ingresso e i gentili addetti della californiana Yondr sbloccano temporaneamente la chiusura. Il claim dell’azienda dice: “Ci sono cose che possono essere vissute solo nella vita vera”. E l’artista poeta ha aggiunto: “I nostri occhi si aprono un po’ di più e i nostri sensi sono leggermente più acuti quando perdiamo la stampella tecnologica cui siamo abituati”. Un distacco totale dal tempo contingente, digitale, affollato e nervoso. “Lo ha fatto anche Bono a New York”, chiosa il collezionista di vinili.
Età media sui cinquanta, ma ci sono anche giovani. Io ho portato con me addirittura un tredicenne, che da quest’anno suona il piano, punta alla musica e dimostra un interesse speciale. Con un insegnante di letteratura di liceo parliamo dei ragazzi di oggi: “Ansiosi, fragili, confusi, tantissimi prendono già gocce e psicofarmaci”. Bob Dylan lo sa bene che viviamo un tempo sconvolto, molto di più degli anni Sessanta e Settanta della Guerra fredda, di Cuba e del Vietnam. Per questo ha voluto e ottenuto un tour con modalità uniche e per altri irripetibili.
I concerti iniziano tutti puntualissimi: 21 e 30 spaccate. Qualcuno deve ancora prendere posto. Io ho seguito quello di Perugia, 7 luglio, nello Stadio Santa Giuliana della fortunata rassegna Umbria Jazz. Nei teatri di Milano e all’Auditorium di Roma (9 luglio) probabilmente lo spazio chiuso avrà aiutato di più, ma in quest’arena aperta, sotto un cielo da blu stellato, sul palco nero sui cui prendono vento drappi rossi, poche luci fisse e la band di cinque elementi quasi ferma, il protagonista si perde. Bob il mitico, l’icona della canzone americana, è dietro un pianoforte nero lucidissimo posto verticalmente rispetto alla platea e dunque si intravvede a malapena la chioma ribelle, di cui John Lennon diceva che “non ci passava il pettine”. Per carità, Dylan suona per tre quarti di concerto in piedi, ma ugualmente faccio fatica a distinguere il suo mezzobusto. Come me tanti altri, che tendono il collo, ondeggiano da una gamba all’altra, fissano il puntino. Sto per sbuffare quando il tredicenne aspirante pianista mi sorride sardonico e sussurra: “Pazzesco, mitico… È praticamente impossibile suonare un pianoforte gran coda in piedi”. Ci rifletto, è vero. Ricordo di aver letto che il profeta aveva stangato uno dei rivali perché non aveva imparato a suonare ritto. Lui invece, l’ottantaduenne interprete di capolavori assoluti, per due ore di fila accarezza, liscia, picchia i tasti senza soluzione di continuità. Sulle note finali di una canzone ne inizia un’altra. Così avanti per diciotto brani. Non un sorso d’acqua, non una pausa, solo tre parole in italiano: “Grazie, grazie, grazie”.
Ne avrebbe da dire Bob Dylan, nato Robert Allen Zimmerman nel 1962 nel Minnesota, da una famiglia di ebrei lituani emigrati in America. I suoi nonni paterni, Zigman e Anna Zimmerman, espatriarono nel 1902 dalla città ucraina di Odessa. Figurarsi se non avrebbe da dire uno dei più famosi paladini della canzone di protesta col mondo che pencola sull’orlo della Terza guerra mondiale. E non avrebbe forse da spiegare lo star system sempre lui che l’ultimo libro dato alle stampe, a novembre 2022, lo ha intitolato La filosofia della canzone moderna (Feltrinelli). È una raccolta di oltre sessanta saggi dedicati ad altrettanti artisti, da Stephen Foster a Elvis Costello, da Domenico Modugno ai Clash, passando per Hank Williams e Nina Simone, in cui analizza quella che chiama “la trappola delle rime facili”, mostrando come l’aggiunta di una sola sillaba possa cambiare una canzone, e magari rovinarla. Un saggio dal finale acre: “Nella musica di oggi è difficile trovare il cuore, non c’è un cuore neppure se lo cerchi ai raggi X”.
Ma non è più tempo di parole con la rabbia e la violenza che saettano. Al cuore smarrito del mondo e della canzone si sono rivolti i concerti italiani di Bob Dylan, per prenderci in cura, rilassarci, staccarci della tempesta di notizie, dalla connessione sempre on, dalle raffiche di immagini, di notizie ansiogene, dalle fake news che stanno divorando l’umanità e i sentimenti. Non importa che lui si veda poco, è voluto. “Avrebbe potuto usare i due schermi laterali sui cui proiettare i primi piani”, lamenta qualcuno a mezza bocca. Quanta curiosità per vedere da vicino il volto spigoloso dell’ex ragazzino bianco e scavato, che voleva studiare filosofia e insegnare teologia e invece comperò una chitarra e tutto ebbe inizio, a New York. Non gli è importato il primo piano, le mani sulla tastiera, non ha voluto una scena fantasmagorica, non ha voluto nessun effetto speciale, men che mai le migliaia di accendini e i cori del pubblico. Qualcuno ha scritto che molti sonnecchiano, altri stanno a occhi chiusi, pochi applaudono. O meglio il pubblico sarebbe pronto alle standing ovation, ma non ne è data la possibilità. Però il distacco, il trans, quel trasporto, lasciano imperversare nell’arena, dentro, fuori, ovunque, quella voce che è solo Bob Dylan. Graffiante, rauca, trascinata, che ti entra nella carne, raggiunge l’anima e la consola. Basta che prenda una nota, che scivoli nell’accenno di una melodia e tutto canta. Il mio apprendista musicista si avvicina all’orecchio e mi dice: “Non sembra che abbia 82 anni, il timbro è giovane”.
Proprio così. Il miracolo. Abbattere tempo e spazio, cancellare il luogo e portare la tonalità nell’altrove. È voce, tutta voce, solo voce, lui già non c’è più. Lui ci sta abituando, lo so bene. Conosco lo strazio della perdita, dell’assenza, il trauma. Ma chi ha fede va oltre. E Bob Dylan fede ne ha. I suoi testi grondano di riferimenti sulla vita e sul dopo, sul paradiso e sugli angeli. Lui stesso ha studiato la Bibbia e ha raccontato la sua conversione al Cristianesimo. In False Prophet del 1965 affronta le critiche quando la svolta evangelica fece pensare a tanti che avesse tradito la protesta: “Canto canzoni d’amore/Canto canzoni di tradimento”. Rispose citando la sua amica-amata Joan Baez: “Lei pensa di rifare il mondo, io penso che il mondo non si possa rifare”.
Bob Dylan non canta solo canzoni, le sue sono poesie sul pentagramma. Per questo nel 2016 gli hanno conferito il Nobel per la Letteratura con la seguente dizione: “Per il suo profondo impatto sulla musica popolare e sulla cultura americana, segnato da composizioni liriche di straordinaria potenza poetica”. È una poesia che deflagra, perché Dylan conosce il dolore, la solitudine, l’umiliazione e ti ama. Forse in particolare proprio a Perugia, dove arrivò la prima volta ventunenne per inseguire Susan Elisabeth Rotolo, l’italoamericana che frequentava l’Università per Stranieri, per la quale perse la testa e di fatti è la biondina che figura abbracciata a lui sulla copertina di The Freewheelin’, la quale però gli preferì un frego umbro che alla fine sposò. Non che Dylan non sia stato amante e riamato coi suoi tre matrimoni e sei figli, ma alla fine è appartenuto soprattutto a se stesso, alla sua ricerca, al suo messaggio e al suo pubblico. Il vento lambisce, le stelle brillano, mi viene da piangere e al tempo sorridere e ogni sorriso si mangia una lacrima. Il ragazzino segue scrupoloso: “La band fa musica classica”, osserva.
Le scalette dei concerti sono le stesse, con brani tratti dall’album del giugno 2020 Rough and Rowdy Days, ricche di citazioni, di narrazioni. Sono ballate, sono preghiere. “Oggi e domani, e così anche ieri, muoiono i fiori come muoiono tutte le cose…”. Il brano Io contengo moltitudini, dal tono potente e visionario, è ispirato al poema ottocentesco di Walt Whitman. “Io sono come Anna Frank, come Indiana Jones, e come quei ragazzacci inglesi, i Rolling Stones…Suonerò le sonate di Beethoven e i preludi di Chopin” è di fatti un verso che si trova nella sezione 51 del poema Song of my self di Whitman. Il tema della morte torna in Black Rider con l’evocazione del “Cavaliere nero” con cui l’artista intrattiene un dialogo e in cui si lascia andare a un epiteto. Ma, tema attuale, non è la gratuità del volgare, bensì un riferimento addirittura alle citazioni delle satire di Decimo Giunio Giovenale (50 dC e 127 dC) per sfogare “l’indignazione verso il degrado della società”.
L’inglese di Dylan non è facile da cogliere nemmeno all’orecchio più esperto, ma non importa sapere l’inglese e tradurre lo slang perché la voce va oltre la parola e il contenuto. In My own version of you, brano dal sapore horror, i riferimenti sono a John Steinbeck e Frank Sinatra, ma anche al Riccardo III di William Shakespare e a Le Troiane di Euripide. Come riferimenti storici sono presenti in Crossing The Rubicon (Ho passato il Rubicone) per dire “sono sul punto del non ritorno”, citando Giulio Cesare di rientro dalle Gallie quando decise di passare il confine del territorio centrale di Roma, invece di sciogliere le milizie come chiedeva il Senato.
Dylan ha studiato e studia molto, per questo predilige la solitudine: “Bisogna stare soli per stare concentrati”. E poi fa molte attività: dipinge, scolpisce, compone. Del suo lato artistico di pittore, disegnatore e scultore abbiamo parlato a proposito della mostra Retrospectrum, allestita al Maxxi di Roma e terminata il 30 aprile (L’Opinione), visitatissima e che ha anticipato questo tour canoro. L’ultimo? “Bob non ha nessuna intenzione di ritirarsi”, si legge in una nota ufficiale, ma ecco l’ultimo brano: Every grain of Sand. Attacca così: “Il momento della mia confessione, nel momento del mio più profondo bisogno”. Il critico Paul Nelson di Rolling Stone l’ha definita la Mr. Tambourine Man del periodo cristiano: “Sprigiona sicurezza e forza da tutti i pori. Ma c’è anche vulnerabilità”. È l’ultima e unica concessione in cui l’armonica di Dylan si trasforma in un archetipo che perfora il cuore. Il senso divino è al tempo stesso palpabile e comprensibile, tocca le porte del paradiso, raggiunge in modo spontaneo le esperienze del dolore, della meraviglia e della bellezza. “È una preghiera che abita nella stessa zona intuitiva di Blowin’ in the Wind, hanno scritto i critici. “Vedere un mondo in un granello di sabbia/E un paradiso in un fiore selvatico/Tenere l’infinito nel palmo della mano/E l’eternità in un’ora”.
Il pubblico si alza, tantissimi corrono verso il palco. Afferro la mano del giovanissimo studente e lo trascino per provare a chiedere il bis. Sappiamo che l’artista non ne concede. Il ragazzino mi scruta sconcertato: “A 82 anni quest’uomo ha cantato per due ore di fila, senza interrompere, come non avrebbe fatto nessun tenore in nessuna opera”. Sono sollevata e orgogliosa che il senso della musica, il galateo e l’educazione emotiva alberghi in alcuni giovani come questo tredicenne serio, coi suoi occhialini dorati, che ha colto i passaggi essenziali, non una lamentela e non una frase inopportuna. Ci portiamo verso le uscite, ma restiamo bloccati. Il professore di liceo intuisce un movimento: “Faranno uscire prima lui”, azzarda. Il mito ha lasciato il palco senza neppure attendere gli applausi. Luci spente, fine del concerto. Ci sono tre auto nere, nerissime, coi vetri oscurati e un mega pullman anch’esso tutto scuro coi vetri neri. Bob Dylan e la band escono furtivamente con un corteo più buio della notte. Dico la verità, ho una strana emozione, qualcosa di terreo mi cala addosso. Ma il professore e il ragazzino sorridono: “Non ci pensare”. Alzo lo sguardo e vedo due stelle perfettamente parallele. Come due occhi dal cielo. Mi pare di sentire quella voce per sempre che dice: “Sono qui, sono Tambourine Man”.
di Donatella Papi