venerdì 23 giugno 2023
Rapito, il 27° film di Marco Bellocchio, è una lucida invettiva contro il potere. In questo caso, il potere della Chiesa cattolica. Il potere di ogni religione. Il nuovo capolavoro del maestro del cinema, in concorso al 76º Festival di Cannes, è arrivato nelle sale italiane grazie a 01 Distribution il 25 maggio, e in quelle francesi con Ad Vitam, a partire dal prossimo 8 novembre. L’opera ha ricevuto 6 Nastri d’argento: Miglior film; Migliore regia; Migliore attrice protagonista a Barbara Ronchi; Migliore attore non protagonista a Paolo Pierobon; Migliore sceneggiatura; Miglior montaggio per Francesca Calvelli e Stefano Mariotti. Il lungometraggio di Bellocchio è liberamente ispirato al libro di Daniele Scalise, Il caso Mortara. La vera storia del bambino ebreo rapito dal papa (1996). Il regista lo ha sceneggiato con Susanna Nicchiarelli, Edoardo Albinati e Daniela Ceselli. Il film racconta la vera storia di Edgardo Mortara, figlio di una famiglia ebraica a Bologna che, nel 1858, viene rapito per ordine di Papa Pio IX, rinchiuso in un collegio cattolico e cresciuto con l’obiettivo di farne un servo di Dio. Il Papa gode ancora del potere temporale. Solo dodici anni dopo, nel 1870, arriveranno i bersaglieri a Porta Pia. Il rapimento nasce da un fatto incredibile. Una domestica cattolica della famiglia fa battezzare di nascosto il piccolo Edgardo, gravemente ammalato. Un fatto che, nelle intenzioni della donna, assume i contorni del gesto d’amore, ma che, in realtà, si trasforma in un atto di inaudita violenza. Infatti, la curia bolognese sottrae Edgardo ai genitori e ai numerosi fratelli. Gli sforzi della comunità ebraica di Roma per riportarlo a casa risulteranno vani.
Bellocchio denuncia, ancora una volta, la soffocante ingerenza della religione nella vita di ciascuno. Ma il suo è un atto d’accusa sobrio, quasi silente. Ma chiaro. Evidente. Puntuale. Altre due questioni appassionano il cineasta: la prima riguarda il plagio, inteso come forma di controllo psicologico di una persona da parte di un’altra o di un gruppo di persone. In questo caso, l’abuso si riferisce alla Chiesa cattolica su Edgardo. Va menzionato, a questo proposito, il dolente L’ora di religione (2002). Un apologo sulla fede messo in scena da un laico fervente come Bellocchio. “Sono ateo ma la fede mi commuove”, è la frase del regista che ha meritato il richiamo in prima pagina su tutti i giornali. La seconda ragione, riguarda i conflitti interni all’universo familiare. D’altronde, sin dal suo folgorante esordio con I pugni in tasca (1965), fino al bellissimo documentario Marx può aspettare (2021), che narra il suicidio del fratello Camillo, la famiglia ha rappresentato un tema centrale della poetica bellocchiana. Rapito è una nuova luminosa riflessione sul potere, terribile, della limitazione del libero arbitrio. Bellocchio, oltre alla sua magistrale messa in scena, si conferma un narratore coerente e un appassionato direttore di attori. Su tutte, svetta l’interpretazione ammaliante di Barbara Ronchi, che dà il volto a Marianna Padovani Mortara. Ma occorre segnalare anche Leonardo Maltese (Edgardo Mortara da ragazzo) e Fausto Russo Alesi (Salomone Mortara), che dopo l’amletico Francesco Cossiga di Esterno notte (2022), si conferma attore di raffinate coloriture psicologiche. Infine, due ultime menzioni: l’insinuante Pio IX di Paolo Pierobon e l’oscuro inquisitore di Fabrizio Gifuni (ormai assurto ad autentico attore feticcio del regista).
di Andrea Di Falco