“Una famiglia radicale” di Eugenia Roccella

martedì 20 giugno 2023


Una famiglia radicale è il titolo del libro scritto da Eugenia Roccella, oggi ministra della Repubblica per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità, che l’editore Rubbettino ha pubblicato nei primi mesi del presente anno. L’autrice lo definisce un “romanzo”. Non si tratta, infatti, della biografia della propria famiglia, bensì della riflessione del percorso di vita dei suoi vari membri, nonché di se stessa. Il romanzo non ha le pretese di riflettere in modo esatto gli aspetti particolari della realtà storica; non la nega, ma prende dai fatti reali lo spunto per indagare sulla ricerca del senso della vita che i protagonisti hanno faticosamente, per l’intera esistenza, compiuto. In questa dimensione, che si colloca a metà strada tra il romanzo moderno, in cui i personaggi restano inchiodati al loro destino storico, e il romanzo pre-moderno, ove essi appaiono anche sotto un profilo ideale, magari storicamente mai realizzato, che rappresenta però l’aspirazione nobile della loro anima, Eugenia Roccella si muove con commovente maestria, riscattando nel ricordo anche gli aspetti più bui delle persone che ella ha teneramente amato lungo la sua ricca ed appassionata esistenza.

Vi sono personaggi e luoghi che rappresentano l’incarnazione dell’ideale. Il principale tra questi è Eugenio Roccella, il nonno paterno, notaio in Riesi, fonte di sapienza e di scienza per tutta la famiglia. Uomo antico – ove il termine non designa la cronologia, bensì lo sguardo sul mondo che viene dall’eterno – egli esercita con scienza e coscienza la missione del giureconsulto. Non è soltanto il registratore degli scambi immobiliari, bensì l’esperto in umanità che conferisce la forma giuridica della stabilità e della pace alle tumultuose pretese di potere e di ricchezza degli uomini e delle donne di ogni tempo. Per questo motivo Eugenio Roccella è un’autorità che tutti in Sicilia riconoscono. La sua attività non conosce riposo; pur amorevolmente piegato verso la sposa, i figli e i parenti, che ama e sostiene, egli fa della grande casa familiare il luogo degli affetti e del lavoro, in quell’unità tra pubblico e privato che caratterizzava la cultura di un mondo ancorato all’antropologia in cui le varie sfere dell’attività umana non erano tra loro separate, come se ciascuna di esse fosse un cassetto da aprirsi e da chiudersi a seconda dei giorni e delle ore. Egli infatti considera tutte le attività, pubbliche e private, avvinte tra loro per la formazione e per la crescita della coscienza.

Vero compito, quest’ultimo, di ogni uomo e di ogni donna che non aspira al potere, al denaro, al successo, bensì a quella sapienza che, consapevolmente o senza piena consapevolezza, è dono che Dio fa all’uomo giusto. A lui può applicarsi l’inizio del Salmo 119: “Beati immaculati in via, qui ambulant in lege Domini”. Quando il boss mafioso che domina protervo sul territorio di Riesi gli offre la sua protezione, egli ha la dignità di rispondergli: “Non abbiatevene a male, favori non ne voglio da nessuno, nemmeno da voi”; quando i suoi figli Franco ed Enzo portano la famiglia sull’orlo della bancarotta, tra le folli spese elettorali per la politica dell’uno e le enormi perdite al gioco dell’altro, Eugenio Roccella vende il patrimonio, salda i debiti contratti con gli usurai e, alla fine, esaurito il suo dovere verso se stesso, chiama nel suo studio la nipote amatissima, allora diciassettenne, e le dice: “Adesso, Eugenia, ho finalmente sistemato tutto, non ci sono più debiti, vi lascio tranquilli. Posso morire”. Riesi è il luogo dell’infanzia felice di Eugenia. Non perché il paese – che la madre di Eugenia definiva “paesazzo senza attrattive” – avesse qualcosa di particolarmente significativo alla luce dei canoni della modernità, bensì perché in esso scorreva lenta e rassicurante una vita di relazioni e di rapporti autenticamente personali: “La comunità, familiare e amicale, includeva tutti, anche anziani e disabili, e ogni anomalia e stranezza individuale era assorbita”.

Le innumerevoli amiche di infanzia che giocavano e si confidavano con lei, senza distinzione di età anagrafica e di classe sociale, costituivano quell’ambiente familiare gioioso che, in attesa serena delle asprezze della vita futura, creava una “atmosfera di intimità femminile e calore domestico”, in cui Eugenia trovava la sua felicità.  Spiccano nel romanzo le figure del padre e della madre della protagonista. L’esistenza di entrambi traluce con vivezza nel chiaroscuro tra gli ideali nobili che essi desideravano realizzare e le difficoltà concrete che si sono a loro frapposte per impedirglielo. La narrazione è impregnata di profonda pietas filiale; non nasconde le tristezze e le amarezze, ma le trasfonde in un destino che la Provvidenza è capace di riscattare. Le difficoltà sorte dalle loro inadeguatezze personali mai sono giudicate come “colpe”, ma sempre come effetto di un intreccio di fattori, sociali ambientali e personali, che – senza annullare la responsabilità individuale – gravano sulla persona in guisa spesso insuperabile. Per comprendere il tema nulla è forse più efficace che ricordare la Degnità VIII della Scienza Nuova (1744) di Giambattista Vico “Questa medesima Degnità congionta con la settima e ‘l di lei corollario (Degnità che suona che vi è diritto in natura e che l’umana natura è socievole) pruova che l’uomo abbia libero arbitrio, però debole, di fare delle passioni virtù; ma che da Dio è aiutato naturalmente con la divina provvedenza, e soprannaturalmente dalla divina grazia”.

Vanno considerati la debolezza del libero arbitrio, che raramente riesce a trasformare in virtù le passioni; ma v’è anche l’ausilio sul piano naturale della Provvidenza – e della Grazia, per coloro che sono consapevolmente credenti – che fa rifulgere come gemme anche gli slanci generosi dell’anima rivolti al bene, anche se la persona non perviene con compiutezza al fine desiderato. Così è per l’indomita passione politica di Franco Roccella; così è per la dedizione appassionata alla causa della libertà delle donne, condotta sotto la fascinazione inquietante di Marco Pannella, di Wanda Raheli, madre di Eugenia, che coinvolse, nel turbinio del post ‘68, anche la figlia nelle battaglie del Partito Radicale, tra cui quella per la libertà dell’aborto. Il padre “era molto netto, sul tema, per lui l’aborto era un omicidio”. Per la madre, sulla scia dell’opinione di Pannella: “lo zigote non era ancora un essere umano, la donna sì, e dunque si doveva necessariamente privilegiare la sua scelta”. L’autrice, al di là dell’opinione sua e dei suoi genitori degli anni ‘70 e ‘80, svolge nel testo una riflessione sul rapporto tra la donna e la maternità che esprime la cifra dei traumi che la maternità subisce in tempi di mercificazione della persona. La riflessione suggerisce anche un consapevole e rinnovato rispetto della vita umana nascente nel grembo materno, ovvero avviata verso il suo termine naturale.

Riporto integralmente la testimonianza di Eugenia: “Un ginecologo cattolico, Adriano Bompiani, disse una volta che le donne sono disposte a tutto per avere un figlio, e disposte a tutto per non averlo. È così. L’ho capito anche pensando a mia madre. Se una donna rifiuta il minuscolo esserino che è entrato dentro di lei senza chiedere il permesso, se lo vive come un alieno ostile che le cresce in seno e prende possesso del suo corpo contro la sua volontà, è disposta a rischiare la vita, a uccidersi e ucciderlo, pur di cacciarlo via da sé. La maternità ha un suo lato oscuro, non è tutta luce. Mettere al mondo una vita, sentire un altro corpo che cresce nel tuo, richiede di fare ordine nel groviglio di pulsioni e sentimenti appassionati, violenti e contraddittori che si scatenano. Le femministe sostenevano che l’aborto “esula dal territorio del diritto”, ma è vero anche per la maternità, che la cultura patriarcale non ha mai saputo e voluto pensare, a cui ha eretto un mito fasullo per evitare di riconoscerle importanza e centralità. La cittadinanza, nelle democrazie occidentali, è costruita sul concetto di individuo, che etimologicamente significa che non si divide, ed esclude, quindi, le donne. Il corpo materno infatti si divide, per nove mesi è due in uno, creature distinte in un unico corpo. Il risultato è che una donna non è cittadina, non è soggetto di diritti se non appiattendo la differenza e lasciandosi assimilare al maschio-individuo, svalorizzando il potere di generare e confinandolo nel privato”.

Condivido le sagge parole di Eugenia, ma desidero sottolineare che lo scivolamento verso il riduzionismo materialista della maternità e della donna trova il suo apice nella cultura dell’illuminismo e del liberalismo, che degrada la donna a mera riproduttrice o a mero oggetto di soddisfazione del genere maschile, oscurando l’immenso valore metafisico della maternità. Il filo d’oro dell’esistenza dell’Autrice è la fede. Lungo questo filo si scorge evidente l’opera della Provvidenza, che la Grazia perfezionerà in lei nell’epoca della maturità. Eugenia racconta il suo battesimo. Fu decisivo, per superare l’ostacolo dei genitori non credenti, l’irremovibile fermezza della zia paterna Sarina, unica devota cristiana in famiglia, che l’aveva amorevolmente allevata ed educata in Riesi nei primi quattro anni di vita: “Prima di venire a Roma la bambina deve essere battezzata”: ella impose così la sua volontà ai genitori recalcitranti. E il seme della Grazia divina fruttificò silenziosamente nel suo cuore. Alla scuola pubblica in Roma, durante le “medie”, scoprì l’ora di religione e, grazie a un giovane e solerte sacerdote, di fronte al Crocifisso esposto sul muro dietro la cattedra, le resistenze contro la fede si indebolirono ed ella la scoprì consapevolmente presente in se stessa.

Sedeva nei primi banchi, con la croce davanti agli occhi: “Era un’immagine dolorosa, di sacrificio e morte, ma anche di amore estremo, umano e comprensibile, straordinariamente consonante con quello che sentivo”. Da un moto spontaneo della sua anima scaturì la decisione di fare la prima comunione. In Eugenia era nata la precisa sensazione che Gesù fosse presente qui e ora, accanto a lei. Fu per lei impossibile spiegare alla mamma che non le “bastava più entrare nella Casa di Gesù come un’ospite furtiva, che voleva aprirgli la porta di casa mia, parlargli a tu per tu, come ormai avevo cominciato a fare timidamente”. L’impegno con il gruppo radicale per l’approvazione della legge che liberalizzò l’aborto e la militanza nel Movimento di Liberazione della Donna occuparono gli anni ‘70 e l’inizio del decennio successivo. Il nume tutelare di queste battaglie fu Marco Pannella, di cui ella e, ancor più la madre, divennero seguaci. Ma quel tempo finì ben presto. L’8 marzo 1981, dopo aver festeggiato in piazza la giornata della donna, la “madre lanciò un grido, portandosi la mano alla testa, e cadde per terra”.

Era stata vittima di un’emorragia cerebrale; un aneurisma aveva rotto l’arteria basilare. L’episodio apparve simbolico a Eugenia: “Il filo esile del suo equilibrio interiore era stato tirato fino a spezzarsi”. Wanda fu portata per un’operazione estrema in Canada. I danni dell’operazione furono devastanti. La donna uscì dall’operazione in coma profondo. Poi, giorno dopo giorno, con grande fatica, la madre riemerse dal sonno profondo del coma e riprese quell’esistenza consapevole che sembrava essersi perduta per sempre nel silenzio. Eugenia accudiva la madre come una bimba appena nata: sapendo che poteva rimanere in quella condizione per sempre, le preghiere rimanevano ancora un fatto solitario e tutto personale della giovane figlia. Nella vicinanza accudente, Eugenia riprese il colloquio con Cristo, colloquio mai veramente troncato, ma vissuto fino ad allora come una relazione furtiva e clandestina, come se si trattasse di un peccato intellettuale: “Il Dio in croce, che avevo voluto dimenticare, con la malattia di mia madre era tornato con prepotenza nella mia vita. Tu mi hai messo una mano sulla testa, e io l’ho scansata, mi hai protetta, e io ho fatto finta di poter fare da sola, anch’io come tanti. Ma tutto questo non mi rende felice. Il mondo radicale è stato il mio, ma non è più così. Aiutami a capire. E aiutami a tenere in vita la mia mamma-figlia, questa bambina persa nel silenzio. Nell’assistenza alla madre in coma, trascorsa per lunghi mesi accanto a lei, Eugenia scoprì la differenza evidente tra la vita e la morte. “La vita” – insegna l’Autrice – “è il calore di un corpo che in condizioni di incoscienza nasconde il proprio mistero, ma la persona è lì, tutta intera”. Gli ultimi anni di vita di Franco Roccella furono segnati dal tracollo fisico e da una grave forma di depressione. Nel 1979 Pannella lo fece eleggere tra le fila dei radicali, aprendo la loro lista a candidati che non appartenevano, come Franco, al gruppo storico dei radicali. Ma l’ingresso al Parlamento fu cagione di nuove tristezze. Speculando sui debiti dell’amico, Pannella lo tradì in modo ignobile. L’autrice lo racconta nelle ultime pagine del libro, ove, riferendo che ella stava tutta dalla parte del padre, ne riscatta mirabilmente la memoria. Ella ne rivede l’immagine “avvolto nella sua strana, infantile innocenza, incapace di fare il male consapevolmente”.

Ella stava dalla parte del padre perché lo amava, ma anche perché “era tenero, smarrito, isolato, perché era perdente”. Le riflessioni di Eugenia, a questo punto del libro, inseguita dalla memoria del padre, si fanno stringenti e vanno al cuore della tragedia della postmodernità. Franco Roccella era stato tra i primi, nell’esaltazione del dopoguerra, “a perseguire un’idea di felicità individuale modellata sulla rincorsa del desiderio, e tra gli ultimi a fare i conti con il fantasma del dovere morale”. Eugenia rimedita sulla sua esperienza di militante radicale. Si era illusa allora che “libertà e responsabilità crescessero insieme, che la responsabilità accompagnasse automaticamente l’espansione degli spazi di libertà personale”. Ciò non corrisponde al vero: quel vero che Eugenia ha riscoperto nella sua esistenza con estrema lucidità. La consapevolezza dei doveri verso gli altri si oscura nella coscienza di colui che desidera per sé “diritti” sempre più assoluti, che finiscono, “invece di salvarci la vita”, di opprimerci “fino ad impedirci di respirare in libertà”. L’esistenza paterna è per Eugenia Roccella la metafora della ricerca appassionata del bene che si allontana sempre più nella misura in cui la persona, incerta e insicura, non si affida, nel piccolissimo spazio del suo libero arbitrio, alla guida sicura di Chi, nel suo amore senza limiti per gli uomini, ha offerto se stesso per la salvezza di tutti.

Una famiglia radicale di Eugenia Roccella, Rubbettino 2023, 196 pagine, 16 euro

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino


di Mauro Ronco (*)