Un Paese dove andare (solo?) in vacanza

sabato 17 giugno 2023


Il “benevolo lettore”, che l’Autore a buon diritto spera d’incontrare, scoprirà presto il perché del titolo del libro nella Protasi, il dotto nome del paragrafo introduttivo dove viene narrato uno degli imbrogli riflettenti proprio certe peculiarità italiane: il concorso truccato, la mortificazione del merito, la scorrettezza amministrativa, la disillusione umana. Se la Protasi dell’Autore lamenta il caso di un fraudolento e mortificante inganno del potere pubblico, allora posso completarla con una personale Apodosi consistente nell’insinuare nel titolo il dubbio che l’Autore trattiene nella penna: “Un Paese dove andare (solo?) in vacanza”.

L’Autore intraprende un’opera difficile. Spiegare in un libro il carattere degl’Italiani è davvero possibile? Egli è consapevole della difficoltà e della risposta, né sì né no. Una consapevolezza che gli deriva dalla conoscenza degli scrittori che, nel corso dei secoli addirittura, hanno a vario titolo affrontato l’argomento, ora facendone l’oggetto specifico della trattazione, ora schiarendolo con una lama di luce letteraria. L’Autore, infatti, annota preliminarmente, con arguta modestia, che “in fatto di carattere degli italiani si sono pronunciati praticamente tutti, esprimendo le tesi più variegate, e pertanto vale abbastanza l’aforisma di Stanislaw Lec: “È già stato detto tutto. Esistono sconfinati territori liberi solo nei paraggi della banalità. Nondimeno, l’Autore minimizza. Il suo libro non s’aggira in quei paraggi ma resta nel campo dell’originalità, se non in ogni parte del contenuto, nel modo di vagliare le testimonianze raccolte. Ne risulta un florilegio delle opinioni altrui e un distillato delle opinioni sue sul carattere degl’Italiani.

Qui bisogna dire che al lettore non è richiesta la benevolenza per apprezzare l’opera, che ha molti pregi per farsi considerare da ogni lettore seppure interessato appena ad un argomento tale che in ogni concittadino dovrebbe suscitare quanto meno la curiosità di sapere chi siamo, come ci giudicano gli altri, come ci vede l’Autore, come siamo diventati quello che siamo cambiando nel corso dei secoli oppure perché non siamo cambiati affatto. Se è vera l’osservazione, affiorante tra le righe, che siamo pure il popolo maggiormente impegnato nell’autocritica, dobbiamo domandarci non solo il motivo della generale autoflagellazione quotidiana ma anche se sia un bene o un male, tenuto conto dell’uso machiavellico che ne fa la politica in alto e in basso mediante lo sfruttamento della malevolenza, parimenti generalizzata, secondo la quale cattivi italiani sono sempre gli altri.

Il titolo evoca soprattutto il sentimento dei viaggiatori del Gran Tour che tanti giganti della letteratura, oltre che personalità d’altro genere, intrapresero nei secoli lungo il Bel Paese, spesso soltanto fino a Roma. Talvolta infatti non si spinsero nemmeno a Napoli, considerando l’Italia da lì in giù parte dell’Africa! Gli occhi di costoro, che cercavano la classicità, nel Sud trascuravano gl’imponenti resti della Magna Grecia e l’antica Partenope poi neapolis parlante come l’Ellade, il luogo dove i grandi della Roma caput mundi amavano stare. Ma quella considerazione, per quanto stravagante per gente acculturata, contiene già da sola un giudizio negativo pronunciato da visitatori che ammiravano soltanto l’arte e le vestigia dell’Italia, non gl’Italiani.

Della Protasi dei poemi classici l’invocazione della Musa era parte integrante. Però l’Autore non invoca né muse né divinità. Tutt’altro. Egli affonda la sua ispirazione in opere classiche sull’argomento che intende trattare, oltre che rifarsi qui e là, occasionalmente, alle citazioni ricavate da innumerevoli altre fonti. La lista dei riferimenti bibliografici è notevole per l’autorità e il numero degli scrittori elencati. L’Autore mostra di averne meditato le opere citate, non semplicemente consultate, come si evince dalla padronanza dei contenuti e dall’autonoma elaborazione, ìndice di più vaste letture in proposito. Tanti gli scritti di stranieri: dal Viaggio in Italia di Montesquieu al Viaggio in Italia di Montaigne, da Corinna o l’Italia di de Staël al Viaggio in Italia di Théophile Gautier, dal Viaggio in Italia di Pérez Galdós a Piccola guida per il viaggio in Italia di Stendhal, dal Viaggio in Italia di Simon Weil a In questa Italia che non capisco di Mark Twain, ovviamente il Viaggio in Italia di Goethe e molti altri che qui ometto per brevità. Quanto agli scrittori nostrani: Gli italiani di Barzini, L’identità italiana di Galli della Loggia, Ricordi. Storie fiorentine di Guicciardini, Discorso sopra lo stato presente del costume degli italiani di Leopardi, Viaggio in Italia di Piovene, La mentalità degli italiani di Salvemini, Codice della vita italiana di Prezzolini, Gli italiani piccoli sono di Carlo Sforza, Italiani sono sempre gli altri di Francesco Cossiga, eccetera.

Da tale vasta e celebre letteratura l’Autore ha estratto le varie peculiarità caratteriali afferenti ai campi principali della vita individuale e collettiva degl’Italiani. Tra “chi rigetta aprioristicamente la categoria del carattere nazionale in quanto si risolve in una nozione inconsistente” e chi come Federico Chabod ritiene che “la ricerca del carattere nazionale induce assai più alla storia dei costumi e delle tradizioni morali che non alla storia politica”, ai sentimenti che non ai fatti, e chi come Benedetto Croce taglia corto e afferma “Quale è il carattere di un popolo? La sua storia, tutta la sua storia, niente altro che la sua storia”, l’Autore “propende ad accogliere, pur con i dovuti distinguo, la nozione di carattere nazionale come utile strumento cognitivo ed interpretativo del modo di essere di un popolo, nella fattispecie quello italiano.” Ed appoggia questa sua propensione su una pagina di Primo Levi, ritenendo con ciò acquisito, per quanto lo riguarda, il concetto di carattere nazionale. In quella pagina, riportata nel libro, il grande scrittore “non si sente di negare che uno spirito di ogni popolo esiste, altrimenti non sarebbe un popolo”. Pertanto, mentre respinge il sillogismo “tutti gli italiani sono passionali, tu sei italiano, perciò tu lo sei”, ritiene lecito entro certi limiti “attendersi dagli italiani nel loro complesso un determinato comportamento collettivo a preferenza di un altro”. E conclude: “Vi saranno certamente eccezioni individuali, ma una previsione prudente, probabilistica, a mio parere è possibile”.

L’Autore, inseguendo nei secoli il carattere nazionale, compie anche delle digressioni sui momenti decisivi della storia d’Italia, che registra la fine dei secoli bui con l’urbanesimo e Comuni, l’epoca d’oro del Rinascimento, il ripiegamento del Seicento e Settecento, la rinascita postnapoleonica, il Risorgimento con il quale, compiendo la più straordinaria impresa della sua storia, l’Italia torna all’Unità dopo quindici secoli,  dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente, e soprattutto all’Indipendenza nazionale, che sarà compromessa dalla megalomania autolesionistica di Mussolini, antipatriottico malgré lui. Nell’età medievale e moderna, e nell’ultimo periodo bellico, l’Italia “diventa teatro di una vera e propria catastrofe geopolitica”, come si esprime Galli della Loggia citato dall’Autore che ne richiama l’illuminante conclusione: “L’Italia non ha mai avuto la fortuna di essere occupata per intero da un medesimo invasore”.

Sempre assoggettati ad occupanti diversi e stanziati su parti differenti del suolo nazionale per un tempo più o meno lungo, forse perciò gl’Italiani non sono mai potuti diventare “popolo” e sviluppare quindi un carattere unitario. Tuttavia, a quanto espone l’Autore, gl’Italiani sono stati dipinti e appaiono proclivi all’ostentazione, alla doppiezza, al verbalismo, al satireggiare senza arguzia umoristica, all’autoindulgenza non meno che all’autocommiserazione, all’apparire, all’esteriorità senza interiorità, al tirare a campare impegnandosi quanto basta. La famiglia ne fa dei pueri aeterni con il mammismo protettivo, inculcando loro un egocentrismo incoercibile che li rende socialmente amorali.

Qui voglio precisare e aggiungere di mio che gl’Italiani vivono immersi in una placenta di asocialità che intellettuali, politici, religiosi indulgono a stigmatizzare come “individualismo”. Sennonché la massa dei connazionali, generalmente parlando, non è affatto “individualista” (anche l’Autore sembrerebbe propendervi), bensì carente di civismo non solo perché maldisposta a trattenersi e moderarsi, ma soprattutto perché convinta che tutto il mondo debba orbitare attorno all’ombelico. Per contro il vero individualista possiede senso civico in sommo grado, amando l’ordine legale, non il disordine della semilegalità. Eccone una prova esemplare che traggo dal costume d’oggigiorno. Gl’Italiani non fanno la fila mettendosi in silenzio uno dietro l’altro, ma “alla voce”, urlando al mucchio in attesa: “Chi è l’ultimo?”.

L’Autore mette bene in luce una costante degl’Italiani nei rapporti con la fede cattolica. Sia i viaggiatori stranieri che gli scrittori nostrani concordano nel giudicare posticcia, formale, affettata la partecipazione alle funzioni e alle cerimonie religiose. Montesquieu pronuncia un giudizio lapidario: “Non si sono mai visti tanti devoti, e così poca devozione, come in Italia”. Ancora prima, Montaigne aveva osservato che le pompe rituali e la grandiosità papale non sono altro che “l’apparenza della devozione”. Ai letterati d’Oltralpe le pratiche del culto apparivano decisive molto più dei doveri della morale. Madame de Staël afferma con un certo sarcasmo: “Il cattolicesimo italiano, risolvendosi tutto in dimostrazioni esteriori, dispensa l’anima dalla meditazione e dal raccoglimento. Quando lo spettacolo è finito, cessa l’emozione e il dovere è compiuto”. Un concetto che Gaetano Salvemini riafferma con parole quasi analoghe: “Chi osserva le imponentissime cerimonie religiose che vengono tenute in Italia, anche nei piccoli villaggi, è facilmente indotto a ritenere che il sentimento religioso del popolo italiano sia molto intenso. È questa una illusione”.

Ma ritengo necessario integrare le considerazioni degli scrittori citati, rilevando che il sacramento della comunione non ha soltanto coltivato nei fedeli la virtù morale del pentimento per i peccati, ma ha pure ingenerato nei cittadini il vizio comune dell’indulgenza sociale. Ognuno finisce col credere che, seppure la coscienza non riuscisse purtroppo a trattenerlo dal malaffare privato o politico, il lavacro sacramentale metterebbe a posto comunque la sua anima se non i danni collettivi cagionati. In più, con l’impagabile chance di poter ricominciare da capo, senza limiti fino alla metanoia cristiana.

E tuttavia devo precisare e aggiungere che negli ultimi lustri, con il progredire della scristianizzazione europea, il Cattolicesimo arretra in Italia benché ne sia la culla. Diminuiscono i fedeli e le vocazioni sacerdotali. Le chiese si svuotano e chiudono. Ragioni per le quali non si può parlare, al modo passato, di dissociazione tra devozione ed apparenza, essendo fortemente scemata la stessa sembianza della fede.

I tratti “somatici” dell’italiano medio vengono sublimati dalle figure del politico italiano, che le memorie di due governanti stranieri di prima grandezza descrivono in modo sferzante. Henry Kissinger ha scritto: “Qualunque fosse il motivo, ogni nuova visita mi lasciava l’impressione che il principale compito della classe politica si esaurisse nell’atto stesso del nostro arrivo all’aeroporto”. E Helmut Schmidt ha aggiunto: “La classe politica italiana, nonostante il dinamismo eccezionale e superiore alla media dell’economia del Paese, è angustiata da complessi d’inferiorità in politica estera, che pure riesce abilmente a camuffare, e si esaurisce in giochetti oziosi nel variare le alleanze parlamentari”. La finzione domina i politici ben oltre l’indispensabile coessenziale alla politica. L’Autore sottolinea il “funambolismo parolaio” che distingue il ceto politico.

Il “politichese” raggiunse, secondo me, un vertice assoluto nell’eloquio di un presidente del Consiglio, come attesta l’aneddoto, qui aggiunto, sulla sua visita di Stato al primo ministro del Regno Unito. L’interprete cercò di rendere in inglese l’astruso linguaggio del politico italiano. Ma presto si arrestò e confessò all’esterrefatta Margaret Thatcher di non poter tradurre ciò che non capiva. Giuseppe Prezzolini sottolineava che “il dire niente in molte parole è stata sempre la prima qualità degli uomini politici”. Trasformismo, dietrologia, panpoliticismo e pangiuridicismo, formalismo, pacifismo irenistico, disattenzione alle necessità militari sono altri tratti del carattere politico degl’Italiani.

L’Autore, nelle conclusioni del libro, non nasconde che certe “ipertrofie e deformazioni dell’indole italica” potrebbero pure “inglobare un senso della vita più raffinato, avveduto, con i piedi per terra, rispetto a chi, invece, è tutto sostanza, realismo, funzionalismo e razionalismo” ed essere riguardate come pregi anziché difetti, mentre mette in guardia dal “pericolo di autoescludersi nel ruolo di Paese dove andare in villeggiatura, di rinchiudersi nel recinto confortante ed autoconsolatorio del posto più bello del mondo, di crogiolarsi nell’italianità di cartolina e di facciata”.

Alla mia volta, concludendo la prefazione, desidero osservare che l’indole individuale e collettiva degl’Italiani può ricavarsi anche dalle fonti letterarie propriamente dette, non specifiche sull’argomento. Perciò mi sento d’invitare l’Autore ad integrare la seconda edizione con Alessandro Manzoni, omesso dai riferimenti bibliografici e menzionato appena per le “grida”. I personaggi manzoniani, pur nei loro romanzati caratteri seicenteschi, sono prototipi degl’Italiani ottocenteschi, novecenteschi, contemporanei. Tutta la trama dei Promessi sposi rimanda alla storia di un’Italia promessa, sospesa, attesa. Inoltre, per sfaccettare completamente il poliedro del carattere degl’Italiani reputo indispensabile Pinocchio. Nell’Ideologia italiana (mi sia perdonata l’autocitazione, vizio nostrano) ho scritto tra l’altro che “Le avventure di Pinocchio sono la biografia morale dell’Italiano. Ogni capitolo ed ogni personaggio di quelle avventure ritraggono vicende nazionali e individuali senza tempo. Quelle avventure non sono la storia di un burattino, ma dell’umana italianità. Quel burattino di legno raffigura noi tutti. È intagliato nella nostra carne”. Già, gl’Italiani poco spasimano per il libro italiano più conosciuto al mondo, che tuttavia non è riuscito a fare di Pinocchio un profeta in patria. Infatti, come modello etico, lo hanno azzittito alla stregua del suo Grillo parlante.

(*) Giovanni Baiocchi, “Un Paese dove andare in vacanza. Viaggio nel carattere degli italiani”, Rubbettino, 194 pagine, 15 euro


di Pietro Di Muccio de Quattro